Il grande non detto sulla grandine, le alluvioni e gli sbalzi termici 

Assistiamo attoniti a intere regioni della Germania che finiscono sott’acqua, a picchi della temperatura di 50 gradi in Canada e a grandinate nel nord Italia con chicchi grandi come mandarini. 

La prima domanda a cui rispondere è: questi fenomeni estremi sono legati al cambiamento climatico? E la risposta è: sì. Definire, però, in che modo e in che misura, diventa molto più complicato e sdrucciolevole.

Eventi metereologici eccezionalmente violenti si sono sempre verificati, su questo non c’è alcun dubbio. Il cambiamento climatico, però, sembra influenzarne l’intensità, la frequenza e, soprattutto, la distribuzione geografica. 

Iniziamo con il dire che l’attribuzione degli eventi estremi è una disciplina giovane, che ha iniziato a farsi largo sulle riviste scientifiche solo nell’ultimo decennio.

Studi di attribuzione per tipologia di evento
2012-2021


Fonte: Carbon Brief

D’altronde, i primi risultati indicano una tendenza abbastanza netta, anche se non univoca: nel 70% dei fenomeni estremi analizzati è possibile riscontrare un’amplificazione o un’accelerazione del tempo di ritorno legata al cambiamento climatico.

I risultati


Fonte: Carbon Brief

Dopo aver dato una risposta a questa prima domanda, vale la pena farsene un’altra: come pensiamo di risolvere questo problema? E qui la risposta è sconcertante: non pensiamo affatto di risolverlo, nei nostri piani le prossime generazioni dovranno adattarsi a fenomeni metereologici da film di fantascienza: chicchi di grandine grossi come arance, bombe d’acqua da un metro di pioggia in poche ore, improvvise variazioni termiche nell’ordine di 15/20 gradi rispetto alla temperatura di riferimento.

In poche parole, l’obbiettivo della strategia climatica impostata da chi oggi utilizza le immagini che arrivano dal Canada o dalla Germania per terrorizzare l’opinione pubblica è lasciar peggiorare la situazione per cinquant’anni e poi cristallizzarla. Un paradosso che dovrebbe far riflettere.

Usiamo una metafora cruda.

Immaginate di andare dal medico dopo migliaia di pacchetti di sigarette e sentirvi dire quello che nessun fumatore vorrebbe mai sentirsi dire: avete un tumore ai polmoni. A questo punto l’oncologo vi prescrive la terapia: smettere di fumare. E basta.

Questa semplice metafora racchiude la follia suicida della nostra politica ambientale: smettere di fumare è una scelta saggia per evitare di farsi venire un tumore ai polmoni, quando te lo diagnosticano però è una contromisura pressoché ininfluente, bisogna aggredire la malattia, il tempo della prevenzione è finito.

In parole povere, stiamo stanziando migliaia di miliardi per prevenire una malattia che è già in uno stadio avanzato. Una dinamica su cui Freud, con la sua teoria della rimozione, avrebbe potuto scrivere un’intera bibliografia.

Questo fatalismo strategico non pone solamente un vistoso problema etico (la generazione che ha avuto la vita più facile e più comoda nella Storia dell’umanità ha il diritto di condannare le successive a un’esistenza molto più difficile e incerta?) ma, soprattutto, espone l’umanità a rischi che, con il massimo rispetto per le vittime tedesche e belghe, vanno ben oltre l’allagamento di qualche cittadina e un paio di centinaia di morti.

Facciamo un esempio attingendo all’esperienza dei nostri antenati.

Intorno al 1300 il clima europeo iniziò a cambiare: dopo cinque secoli di quello che viene definito optimum climatico medievale, un periodo pressoché perfetto per lo sviluppo umano, l’Europa si avviò verso cinque secoli estremamente freddi, che hanno preso il nome di piccola era glaciale. La temperatura media nel corso di un paio di secoli, del tutto naturalmente, scese di 1/2 gradi e gli inverni divennero freddi come non possiamo neanche immaginare: il Tamigi, la Senna, il Danubio in inverno ghiacciavano e diventavano calpestabili. 

Ma a causare milioni di morti non furono tanto le temperature polari quanto la pioggia. A partire dal ‘300 infatti, l’intero continente europeo andò periodicamente incontro a estati piovose e l’acqua faceva marcire le colture sui campi, causando spaventose carestie che, oltre a decimare la popolazione, offrivano anche un terreno di coltura ideale alle epidemie. 

La piccola era glaciale ci offre più di uno spunto per riflettere sulla contemporaneità.

Se le piogge torrenziali che hanno flagellato la Germania o le grandinate che hanno sconvolto il nord Italia avessero colpito il Canada, con il grano sui campi come succede a luglio, l’anno prossimo non ci sarebbe abbastanza cibo per tutti sul pianeta. E tutta la nostra tecnologia non ci servirebbe a niente, guarderemmo marcire le piante esattamente come i nostri antenati medioevali. 

Se i 50 gradi del Canada si fossero manifestati sull’Amazzonia avremmo assistito inermi al collasso di un ecosistema che custodisce il 10% della biodiversità terrestre e stocca una quantità di anidride carbonica equivalente a dieci anni di emissioni umane.

Questi sono solo un paio di esempi ispirati all’attualità, la casistica in realtà potrebbe essere pressoché infinita.

Che sia ben chiara una cosa: le rinnovabili, l’auto elettrica, gli hamburger vegetali e tutte le altre amenità di cui stiamo discutendo da qualche anno a questa parte non ci aiutano in alcun modo a scongiurare questo genere di minacce. 

Cerchiamo di tenere a mente, infatti, che la nostra strategia ambientale non nasce dalla ricerca di una soluzione ma dalla ricerca di un colpevole. Abbiamo passato decenni a discutere se questo fenomeno fosse causato dall’uomo o fosse naturale, quando in realtà la questione era del tutto irrilevante e la domanda fondamentale era un’altra: siamo in grado di controllarlo? Perché se non riusciamo a controllarlo, naturale o antropico che sia, l’unico orizzonte razionale è prenderne il controllo il più rapidamente possibile. 

Un mondo con 8 miliardi di persone, che marcia speditamente verso 10, non può più permettersi la variabilità climatica che ha segnato lo sviluppo umano negli scorsi millenni. Un sistema delicato come quello delle relazioni internazionali non può permettersi l’elasticità demografica delle società medievali, adesso una grande carestia globale porterebbe dritti dritti alla terza guerra mondiale. 

Il punto centrale del dibattito ambientale è che non ci basta più una strategia “omeopatica”, dobbiamo piantarla di illuderci che se chiediamo perdono per i nostri peccati contro la Natura tutto tornerà come prima. 

Semplificando all’estremo: il nostro problema è la concentrazione di un gas in atmosfera, l’anidride carbonica (CO2). Sappiamo che oltre una certa soglia potrebbe innescare effetti climatici e metereologici catastrofici e irreversibili, e sappiamo che più ci avviciniamo a quella soglia, più il fenomeno rischia di diventare incontrollabile. Oltretutto, sappiamo anche che potremmo sbagliare a calcolare la soglia e che potrebbe essere prima di quello che prevediamo.

Davanti a noi abbiamo due strade: azzerare il più rapidamente possibile le emissioni umane di questo gas, sperando che il permafrost smetta magicamente di sciogliersi, che le foreste pluviali smettano magicamente di seccarsi; oppure ridurre artificialmente la concentrazione di CO2 in atmosfera, prendendo il controllo dell’unica leva climatica alla nostra portata tecnologica. In poche parole, togliere il piede dall’acceleratore sperando che la macchina si fermi da sola (ma la Scienza ci dice che oramai è impossibile) oppure cercare il freno e poi mettere la retromarcia.

La questione è tutta politica e non ha nulla a che fare con la Scienza.

La tecnologia per catturare l’anidride carbonica dall’aria ce l’abbiamo ed è tutt’altro che avveniristica. Senza fare della facile retorica, gli impianti attualmente funzionanti combinano il principio dell’aspirapolvere (una ventola a risucchio) con il processo impiegato da duemila anni per fare la calce (carbonatazione). 

La cattura diretta in atmosfera: un processo semplice e circolare


Fonte: Joule

Ovviamente, per far funzionare questi impianti abbiamo bisogno di energia. E a quel punto quanto emettiamo per produrla non è più, in sé per sé, il punto focale del dibattito ambientale, dipende tutto dal rapporto tra assorbimenti ed emissioni. Qui si capisce perfettamente perché la questione è politica e non scientifica.

Se la soluzione a questo problema, come è sempre stato per quelli precedenti, è una tecnologia, allora ci servirà più energia. E se ci servirà più energia parliamo del paradigma della crescita, parliamo di sviluppo e progresso. 

Il progetto dell’impianto di cattura diretta in costruzione in Texas

Immagine che contiene cielo, esterni

Descrizione generata automaticamente

Se, invece, la soluzione a questo problema è azzerare le emissioni antropiche, allora saremo inevitabilmente costretti a ripensare il nostro modello di sviluppo.

Senza voler banalizzare un argomento complesso, il sospetto è che chi cinquant’anni fa se la prendeva con “la razza bianca che devasta l’equilibrio ecologico globale” per dimostrare che il capitalismo era un sistema sbagliato voglia approfittare dell’occasione per dimostrare che aveva ragione. E che quindi la lotta al cambiamento climatico sia solo un cavallo di Troia per imporre una nuova agenda politica ai governi democratici. 

Strane assonanze tra il 1967 e il 2021

Immagine che contiene testo, interni

Descrizione generata automaticamente

Altrimenti non si spiegherebbe come sia possibile che, chi definisce la lotta al cambiamento climatico come “la terza guerra mondiale”, abbia deciso di affrontarla senza combattere, rassegnandosi alla prospettiva di perdere il meno possibile.

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