di Fabiana Giacomotti per ilfoglio.it
Milano. Il 25 aprile del 1719, l’editore William Taylor espone nella vetrina della sua libreria di Londra “at the ship of Pater Noster Row”, cioè al limitare di quello che, fino a tutti gli anni Venti del Novecento, è stato il cuore dell’editoria inglese, la prima parte di un racconto di avventure: The Life and Strange Surprizing Adventures of Robinson Crusoe, of York, mariner. Il nome dell’autore, un giornalista molto conosciuto di nome Daniel Defoe (scritto De Foe, all’epoca l’ortografia non è ancora codificata, tanto meno dei cognomi) non è stampato sul frontespizio: l’opera, infatti, è stata commissionata all’autore, che ha bisogno di denaro per sposare la figlia, come un’autobiografia del protagonista.
Il testo ha una sola illustrazione: un’incisione che raffigura Robinson, in piedi su una spiaggia, con due moschetti in spalla e un cappello di paglia a pagoda in testa. In meno di quattro mesi, ne verranno pubblicate tre edizioni. Entusiasta, avido di capire le scelte del naufrago ma impossibilitato a farlo perché vi sfido a seguire i movimenti delle maree descritti dall’autore e a capire come diavolo sia posizionata l’isola sul globo terracqueo, il pubblico reclama un sequel: The farther adventures of Robinson Crusoe esce addirittura il 20 agosto dello stesso anno. Defoe verga nuove parole crude, dure e spoglie al ritmo forsennato del cronista che è, ma accanto a queste viene offerto al lettore un planisfero pieghevole dov’è tracciato il percorso dell’eroe, che il primo libro ha lasciato nuovamente in Inghilterra, ricco, ammogliato e dunque privo di interesse, fino in Cina e in Russia. Di questa seconda parte, che la collana più prestigiosa di Francia, La Pléiade, pubblica in queste settimane in omaggio al tricentenario nella traduzione del 1836 di Pétrus Borel “senza il quale ci sarebbe una lacuna nel Romanticismo”, come diceva Charles Baudelaire, pochi sanno qualcosa: di Robinson abbiamo letto quasi tutti un’edizione abridged per bambini, compatta e priva delle tirate morali e delle infinite pagine di ragionieristica della fauna dell’isola, oltre che delle munizioni e delle armi utili ad accopparla. Siamo dunque generalmente in grado di capire perché Jean Jacques Rousseau amasse il “buon selvaggio” Venerdì, ma non perché Karl Marx e soprattutto l’ipersocialista James Joyce detestassero Robinson.
Ce ne sfugge la dimensione antipolitica, che ovviamente Defoe non perseguiva ma che comunque emerge dalla figura del suo marinaio accentratore e dominante, privo di una visione complessiva del mondo, esattamente come priva di una dimensione politica globale è l’attivista Greta Thunberg, figlia dello stesso ambiente borghese, protestante e intellettuale da cui origina Robinson. L’adolescente con la sua visione ingenua e bigotta è più vicina ai fucili del naufrago e alla sua visione utilitaristica della natura di quanto creda. Entrambi sono eroi appetitivi, cioè esseri desideranti che tendono a un fine. Entrambi provengono da un contesto agiato e sono abituati a non privarsi di nulla. Entrambi non guardano al di fuori del proprio ambiente, per necessità o per opportunità. Non li differenzia di molto nemmeno l’atteggiamento con cui affrontano il mondo. L’indifferente, tenace volontà di dominio dell’uno assomiglia parecchio all’intransigenza politicamente corretta dell’altra. Robinson, però, non è un idealista: osserva gli scatafasci della natura, cioè alluvioni, piogge, terremoti, e li affronta con quello che si potrebbe definire un realismo visionario, riducendoli cioè alla propria portata, con l’attesa e l’astuzia, per poterli affrontare.
Greta, imbevuta di intellettualismo terzomondista, cioè di Rousseau e del mito del buon selvaggio, è invece puro idealismo, per di più parziale: incolpa dei disastri ambientali attuali e futuri la sola parte del mondo che può affrontare, cioè quella occidentale, democratica e tollerante, che le permette di andare in piazza e che, pur fra mille difficoltà di ordine politico e di consenso fra le fasce più basse della popolazione, ancora dipendenti dall’economia del greggio (vedi la Francia dei gilet jaunes) sta riducendo le emissioni da almeno un decennio. Evita invece il tema della Cina e nelle economie dei paesi in via di sviluppo, attualmente responsabili di una percentuale superiore al sessanta per cento delle emissioni di gas climalteranti, ma che proprio grazie alla veloce industrializzazione stanno sfuggendo dalla povertà: invertire questo processo avrebbe ripercussioni catastrofiche. Dunque, dare patenti di colpa non serve, o non serve più. Si può, però, dominare questo processo, riducendolo alla propria portata e risolvendolo, come osservava nei giorni scorsi dal suo blog il ricercatore in ambito energetico Enrico Mariutti, che con altri colleghi sta perseguendo il progetto di “cattura e ristoccaggio” del CO2 dall’atmosfera. Quello che avvicina Greta a Robinson è l’incapacità di comprendere le dimensioni reali dell’isola, cioè del mondo; in ultima analisi, l’egoismo. Per questo, Marx lo detestava.