Clima: “azzerare le emissioni con le sole rinnovabili non è realistico”

Dopo aver chiuso un G20 ricco di risultati simbolici sul fronte della lotta al cambiamento climatico ma abbastanza scarno di contenuti programmatici, Mario Draghi ha aperto la COP26 affondando le mani nella complessità tecnica dell’argomento. 

“Nel lungo periodo dobbiamo essere consapevoli che le energie rinnovabili possono avere dei limiti. La Commissione europea ci dice che potrebbero non essere sufficienti per raggiungere gli ambiziosi obiettivi che ci siamo prefissati per il 2030 e il 2050. Quindi, dobbiamo iniziare a sviluppare alternative praticabili adesso, perché sarà possibile fruirne in pieno soltanto nel giro di alcuni anni. Nel frattempo, dobbiamo investire in tecnologie innovative per la cattura del carbonio”

E poi, durante la conferenza stampa che ha seguito il summit dei World Leaders, ha aggiunto:

“In altre parole, oggi azzerare le emissioni al 2050 con le sole rinnovabili non è realistico, ce l’ha detto la Commissione europea, l’hanno detto le Nazioni Unite, eccetera. Quindi bisogna fare molte più cose”

Queste dichiarazioni di buonsenso hanno sollevato un nugolo di polemiche in quanto infrangono due tabù della narrativa dominante nel campo ambientalista: mettono in discussione il dogma del “100% rinnovabili” e fanno riferimento alla bestia nera del dibattito climatico, la cattura del carbonio. 

Ma che cos’è la cattura del carbonio? In questo blog ne abbiamo parlato decine di volte, però vale la pena tornare sull’argomento vista l’improvvisa attualità del tema. 

Con cattura e stoccaggio del carbonio si definiscono tutte quelle tecnologie in grado di abbattere e stoccare permanentemente nel sottosuolo le emissioni di un qualsiasi ciclo industriale che comporti il rilascio di anidride carbonica (CO2) in atmosfera. 

Si parla di cattura post-combustione quando l’anidride carbonica viene estratta dai fumi di scarico prodotti da un impianto che utilizza carbone, gas, petrolio o biomasse per generare energia (centrali termoelettriche, acciaierie, cementifici etc) e invece si parla di cattura pre-combustione – la più diffusa per il momento – quando la CO2 catturata proviene dalla purificazione del gas naturale, da processi di sintesi dell’idrogeno blu e da altri processi chimici. 

Attualmente il processo di cattura più utilizzato è l’assorbimento con soluzione di ammine ma sono già disponibili a livello commerciale sistemi a base di membrane filtranti e stanno entrando in commercio processi di adsorbimento, di assorbimento con solventi ed enzimi, di separazione criogenica oppure basati sul ciclo di Allam.

Il processo di cattura della CO2 attraverso assorbimento 


Fonte: US National Petroleum Council (2021)

Parliamo di una tecnologia che secondo gli ambientalisti ideologici – come li ha definiti il ministro Cingolani – non esiste o non funziona ma che in realtà, nel 2021, abbatte la stessa quantità di CO2 di tutti gli impianti fotovoltaici installati in Germania o di tutte le turbine eoliche installate in Gran Bretagna (con emissioni abbattute dagli impianti eolici e fotovoltaici si fa riferimento alla CO2 che non emettiamo grazie alla produzione di energia rinnovabile).


Fonti: IRENA (ultimo dato disponibile), Global CCS Institute (2020)

Uno strumento che dobbiamo mettere al centro della strategia di contrasto al cambiamento climatico per almeno cinque ragioni.

1) La praticità: ridurre le emissioni con la cattura del carbonio è molto più semplice che farlo con le rinnovabili

Il più grande impianto di cattura e stoccaggio del carbonio (Century Plant, USA) può abbattere 8 milioni e mezzo di tonnellate di CO2 l’anno, cioè più di tutti gli impianti fotovoltaici spagnoli messi assieme. Nel complesso, gli impianti di cattura e stoccaggio del carbonio sono appena 20 in tutto il mondo ma abbattono la stessa quantità di CO2 dei 2 milioni di impianti fotovoltaici tedeschi o delle 11.000 turbine eoliche inglesi. In poche parole: per dimezzare le emissioni antropiche sarebbe sufficiente riqualificare con tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 una decina di migliaia di centrali termoelettriche, cementifici e acciaierie invece che costruire qualche decina di milioni di nuovi impianti rinnovabili. 

Il sistema di cattura del carbonio dell’impianto di Shute Creek, negli USA, abbatte 90 volte più CO2 del più grande impianto fotovoltaico italiano (la centrale di Troia, 103 MW su 155 ettari)

Immagine che contiene testo, erba

Descrizione generata automaticamente
Fonte: ExxonMobil, European Energy

2) I costi: la cattura del carbonio è una soluzione che, tutto compreso, costa poco

Il programma di incentivazione dell’energia solare in Germania è costato tra i 200 e i 300 miliardi di euro, quello eolico inglese una cinquantina di miliardi di euro. Al contrario la ventina di impianti di cattura del carbonio attualmente in funzione – che ricordiamo abbattono la stessa quantità di CO2 degli impianti solari tedeschi e di quelli eolici inglesi – sono costati ai contribuenti tra 4 e 5 miliardi di dollari in tutto. Parlare di costi esorbitanti, perciò, è vergognoso.

Costo degli impianti di cattura del carbonio
Componente pubblica vs componente privata


Fonte: IEA (2016). Anche se arriva solamente al 2014 il dato copre il finanziamento di oltre il 90% della capacità installata al 2020.

Oltretutto, i vantaggi economici vanno ben oltre gli investimenti in conto capitale: analizziamo il caso della cattura post-combustione in una centrale termoelettrica. 

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) stima che, attualmente, abbattere una tonnellata di CO2 costa 100 dollari in una centrale a gas e 60 dollari in una centrale a carbone. 

Costi di cattura del carbonio 


Fonte: IEA (2020)

A questi due valori vanno aggiunti una decina di dollari la tonnellata per la compressione della CO2 e qualche dollaro per il trasporto via pipeline verso il sito di stoccaggio.

Costi di trasporto della CO2

Fonte: IEA (2020).

Quanto allo stoccaggio permanente nel sottosuolo, invece, i costi variano notevolmente a seconda delle caratteristiche e della collocazione geografica del deposito: si va da pochi dollari/tonnellata nei giacimenti esausti di gas e petrolio a decine di dollari/tonnellata per le formazioni basaltiche offshore. Tuttavia, la CO2 può anche essere pompata nei giacimenti di gas e petrolio non ancora esausti, aumentando la produttività dei pozzi (entrando in pressione nel deposito, la CO2 spinge fuori gli idrocarburi). Un’opzione discutibile che, però, azzera i costi di stoccaggio. 

Costi di stoccaggio della CO2


Fonte: IEA (2020)

Perciò, dato che in media una centrale a carbone emette una tonnellata di CO2 ogni MWh prodotto e una centrale a gas una ogni 2.5 MWh, azzerare le emissioni con la cattura del carbonio farebbe aumentare il prezzo dell’elettricità, rispettivamente, di 70-80 dollari/MWh in una centrale a carbone e di 50-60 dollari/MWh in una centrale a gas. 

Tuttavia, la IEA precisa che “ci sono evidenze che il crescente portafoglio di progetti di cattura e stoccaggio su larga scala ha già contribuito alla riduzione dei costi attraverso il processo di learning by doing. I costi (CAPEX) sarebbero inferiori del 20-25% se gli impianti venissero ricostruiti oggi”. E aggiunge che, attraverso le economie di scala, l’ottimizzazione delle condizioni operative e della catena di approvvigionamento, il miglioramento della modularizzazione degli impianti, del layout dei siti e della cornice finanziaria dei progetti, i costi possono essere ulteriormente ribassati.

Insomma, a conti fatti, già con la tecnologia a nostra disposizione riqualificare una centrale a gas con un sistema di cattura e stoccaggio del carbonio progettato nel 2021 significherebbe far aumentare i costi di produzione dell’elettricità di circa 30 dollari per MWh.

In un contesto come quello italiano, a media insolazione e a bassa ventosità, valori di questo genere mettono direttamente in competizione gli impianti a gas con cattura del carbonio e le rinnovabili, anche senza tenere in conto i cosiddetti costi di integrazione (gli investimenti per integrare nella rete una crescente quota di energia intermittente).

Costo dell’elettricità (LCOE)
Valori medi, 2021

Dati: Lazard (2021), Althesys (2021)

Il punto è un altro: visto che la produttività media degli impianti solari italiani è di 1.100 ore l’anno (GSE 2020) e quella degli impianti eolici è di 1.900 ore l’anno (GSE 2019), visto che l’opinione pubblica rimane ostile nei confronti dell’energia nucleare, visto che stoccare l’elettricità nelle batterie costa centinaia di dollari al MWh (IEA 2020), la cattura del carbonio è senza alcun dubbio l’unica opzione per produrre energia pulita quando non c’è vento e non c’è sole senza far schizzare le bollette degli italiani.

3) L’efficacia: quantomeno nel breve/medio periodo la cattura del carbonio è la strategia più efficace per abbattere le emissioni di CO2 

Può sembrare una provocazione ma diversi rapporti IPCC lo mettono nero su bianco. 

Immagine che contiene tavolo

Descrizione generata automaticamente
Fonte: IPCC AR5, Annex III (2014)

Prendiamo il caso della tecnologia solare. Il 91% dei wafer fotovoltaici sono prodotti in Cina. Il silicio, il rame, l’alluminio, l’acciaio e tutti gli altri materiali necessari per costruire un pannello fotovoltaico sono estratti e prodotti utilizzando derivati del petrolio e carbone. L’elettricità per assemblare le componenti del pannello è prodotta da centrali a carbone. Infine, i pannelli sono imballati e spediti in Europa o negli USA su navi alimentate da oli combustibili pesanti. È chiaro che decarbonizzare una catena di approvvigionamento così complessa è molto difficile e richiederà moltissimo tempo. 

Al contrario, azzerare le emissioni di un impianto termoelettrico, di un cementificio o di un’acciaieria con la cattura del carbonio, è relativamente semplice: con la tecnologia esistente possiamo abbattere più del 99% della CO2 emessa direttamente dai processi di combustione. Se, al contempo, riduciamo rapidamente le emissioni legate ai processi industriali a monte della combustione (estrazione e raffinazione) e al trasporto (principalmente del gas naturale), il saldo finale delle emissioni sarà prossimo allo zero. I nodi problematici dal punto di vista industriale, quindi, sono due o tre, non decine come nel caso della decarbonizzazione delle rinnovabili. 

4) La condivisione internazionale: decarbonizzare i combustibili fossili significa trasformare la transizione ecologica in una sfida alla portata dei Paesi in via di sviluppo

Durante la conferenza stampa seguita all’intervento nel panel iniziale di COP26, Draghi ha espresso una visione di ampio respiro strategico: se vogliamo ottenere di più dai Paesi in via di sviluppo è inutile pressarli oltre misura, bisogna metterli nelle condizioni affinché possano fare di più.

Una visione che il premier italiano condivide con il prof. Myles Allen, direttore del gruppo di Climate Dynamics al Dipartimento di Fisica Atmosferica, Oceanica e Planetaria dell’Università di Oxford, e che implica la centralità della cattura del carbonio nella strategia globale di contrasto al cambiamento climatico. 

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Lasciare i combustibili fossili sottoterra, infatti, crea quantomeno due ordini di problemi ai Paesi in via di sviluppo.

Da una parte, li priva di ingenti risorse finanziarie (quelle che guadagnano esportando combustibili fossili), costringendoli oltretutto ad acquistare energia sotto forma di tecnologia dalle economie avanzate.

I costi della decarbonizzazione per i Paesi produttori di petrolio e gas


Fonte: IEA (2020)

Dall’altra, per quanto sia impopolare dirlo in questo momento storico, gli preclude il primo passo verso l’industrializzazione. Lo sviluppo di un’industria domestica del carbone, infatti, è un passaggio fondamentale per qualsiasi economia emergente, come ci dimostra la nostra Storia ma come ci dimostrano anche le traiettorie di sviluppo di Cina e India. L’industria del carbone vuol dire posti di lavoro, che per molti lavoratori costituiscono il primo step della transizione da agricoltori a operai e poi consumatori; vuol dire energia termica a basso costo per l’industria del cemento e dell’acciaio in un momento in cui ci sono da costruire intere città; vuol dire competitività industriale con cui attirare investimenti esteri diretti.

Riuscire a offrire a questi Paesi un percorso di dercabonizzazione che non gli precluda lo sfruttamento del loro patrimonio fossile, perciò, è una priorità morale prima che strategica. 

5) Le prospettive industriali: la CO2 è una materia prima estremamente versatile 

Nella conferenza stampa seguita al summit dei World Leaders il ministro Cingolani ha fatto brevemente riferimento ai processi di carbonatazione, che vengono utilizzati da alcune startup per “incorporare” la CO2 all’interno del cemento. Ma questo non è l’unico impiego industriale a cui si presta la CO2.

Le potenzialità industriali della CO2 

Attraverso processi di riduzione e reazione con altre sostanze, infatti, la CO2 può essere trasformata in tantissimi prodotti di interesse industriale: monossido di carbonio, nanotubi e fibre di carbonio, metano, metanolo, etilene, etanolo, propilene, acetato e decine di composti di impiego comune nell’industria dei polimeri.

Alternativamente, la CO2 può essere utilizzata allo stato naturale per produrre materiali da costruzione e fertilizzanti, per migliorare la produttività delle serre o dei fotobioreattori, può essere addizionata alle bevande, può essere impiegata come refrigerante o, come già scritto, per potenziare la produzione ed estendere la vita operativa dei pozzi petroliferi. 

Ed è proprio in questa gigantesca “prateria industriale” – la trasformazione della CO2 da prodotto di scarto a risorsa – che il tessuto produttivo italiano potrebbe ritagliarsi la leadership in decine di nicchie ad alto valore aggiunto, non certo nella catena di approvvigionamento delle rinnovabili o dell’auto elettrica. 

Chiariti i punti di forza della cattura del carbonio vale la pena rispondere a quella che diventa una domanda inevitabile: “ma allora per quale motivo questa tecnologia non è diffusa quanto le rinnovabili?”. La risposta è sconcertante ma, tutto sommato, intuitiva. 

Partiamo da un presupposto: le compagnie elettriche, come tutte le altre imprese, perseguono il profitto (non il contrasto al cambiamento climatico) e generalmente hanno nel portafoglio sia centrali a carbone, sia centrali a gas, sia impianti rinnovabili. 

Se i governi gli offrono fondi pubblici per installare impianti rinnovabili e, contemporaneamente, programmano la messa al bando dei combustibili fossili, per quale motivo le compagnie elettriche dovrebbero investire miliardi – di tasca propria – per riqualificare degli impianti che anno dopo anno diventeranno sempre più problematici sia a livello politico, sia a livello economico? 

In poche parole, i contribuenti europei stanno sborsando centinaia di miliardi di euro per mettere fuori gioco la tecnologia più strategica sul mercato e garantirsi la certezza di pagare bollette notevolmente più salate rispetto al resto del mondo per i prossimi decenni.

E l’energia nucleare? Programmabile, a emissioni zero, economica, sembrerebbe lei la tecnologia più adatta per decarbonizzare il settore energetico o quantomeno il carico di base della rete elettrica.

Il costo di produzione di una centrale nucleare dipende fortemente dai costi finanziari del progetto

Immagine che contiene tavolo

Descrizione generata automaticamente
Fonte: IEA (2020)

Ma non è un caso che Draghi non l’abbia menzionata, quantomeno esplicitamente. Inutile girarci intorno, dopo decenni di disinformazione il problema dell’energia nucleare non è la sostenibilità economica ma quella politica, come dimostrano le recenti dichiarazioni del Nobel Giorgio Parisi. Quindi, prima di chiedere uno scatto in avanti al decisore, bisogna far cambiare idea agli elettori. In ogni caso l’energia nucleare non è una panacea, l’elettrificazione di tutti i consumi finali rimane un gigantesco problema socioeconomico.

Comunque, le parole di Draghi segnalano che il vento sta cambiando. Ci si inizia a rendere conto che l’unica possibilità che abbiamo per far funzionare la transizione ecologica “non è rendere ecosostenibile la nostra economia ma sociosostenibile la nostra politica ambientale” (La decarbonizzazione felice, 2020).

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