Transizione ecologica: all’Italia servono almeno mille miliardi e un milione di ettari

Ma di quanti soldi e di quanta terra avremo bisogno per installare tutti i pannelli solari e tutte le pale eoliche che ci serviranno nel quadro della transizione ecologica?

Gli editoriali di Federico Fubini, Alessandro Barbano e Ferruccio de Bortoli hanno acceso un faro su quello che al momento è l’aspetto più problematico della transizione ecologica, e cioè la qualità dei dati su cui è basata la nostra politica ambientale.

In buona sostanza, mentre progettiamo investimenti per centinaia di miliardi di euro in batterie, pale eoliche e pannelli solari non abbiamo a disposizione neanche uno studio di fattibilità istituzionale che ci dica con precisione cosa riusciremo effettivamente a comprare con questi soldi e quanto spazio dovremo occupare per installare questa infrastruttura ciclopica. O meglio, uno studio ci sarebbe. 

Nel 2015, infatti, un team di ricercatori coordinato dal prof. Mark Jacobson dell’Università di Stanford ha proposto un modello per stimare le ricadute ambientali, sociali ed economiche del paradigma 100% rinnovabili. Prima l’ha applicato agli USA e poi ad altri 138 Paesi, tra cui l’Italia. Lo studio è diventato rapidamente una pietra angolare della narrativa ambientalista ed è stato aggiornato alla fine del 2019 per tenere il passo con l’evoluzione tecnologica. 

Una piccola selezione di approfondimenti che hanno ripreso lo studio di Jacobson solo nel corso degli ultimi mesi

Dato che si tratta probabilmente della ricerca più citata degli ultimi anni vale la pena vedere che dati propone. Ma intanto cominciamo con un aneddoto gustoso. Nel 2017 lo studio di cui parliamo è stato stroncato da una revisione pubblicata sulla rivista scientifica più prestigiosa d’America, PNAS, che senza troppi giri di parole ha accusato Jacobson di aver manipolato sistematicamente i dati per far risultare possibile quello che in realtà, secondo gli autori, non è fisicamente possibile: alimentare un sistema energetico esclusivamente con fonti intermittenti e non programmabili. Si tratta di contestazioni molto tecniche, che spaziano dalle caratteristiche dei sistemi di stoccaggio dell’energia all’elasticità della domanda di elettricità, quindi le terremo fuori da questa analisi ma è bene menzionarle perché chi legge sappia che genere di incognite gravano ancora sulla reale fattibilità del Green Deal.  

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Tanto per essere chiari, tra i 21 studiosi che hanno firmato questa durissima stroncatura c’è Ken Caldeira, leading author dell’IPCC, autore per l’Accademia delle Scienze USA e la Royal Society, membro della American Geophysical Union nonché uno dei climatologi più autorevoli del mondo. Indispettito dal tenore delle critiche, Jacobson ha fatto causa a PNAS, chiedendo 10 milioni di dollari di risarcimento. Nel 2018 ha ritirato la denuncia e nel 2020 è stato condannato a pagare le spese processuali. Nel frattempo la stampa americana, dal New York Times al Washington Post passando per il Los Angeles Times, l’ha fatto letteralmente a pezzi.

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Ma mettiamo per un attimo da parte il circo mediatico e le contestazioni di Caldeira. Le conclusioni a cui arriva lo studio tanto caro alla narrativa green, infatti, sono già di per sé sconcertanti: secondo i calcoli di Jacobson per centrare l’obiettivo del 100% rinnovabili all’Italia serviranno 600 miliardi di dollari e 500.000 ettari. Contestualmente il costo di produzione dell’elettricità (LCOE) raddoppierà e l’efficienza di rete precipiterà a livelli da terzo mondo (25% di perdite). 

Lo studio prevede perdite di rete pari 194 TWh l’anno, cioè due terzi dell’attuale produzione elettrica italiana

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Fermarsi a questi dati sarebbe già molto comodo: tanto per dirne una, consumare 450.000 ettari di suolo equivarrebbe a costruire un’altra trentina di Milano o a occupare una superficie pari a una volta e mezza la Valle d’Aosta. Ma facciamo un passo in più, propedeutico ad avere una comprensione più profonda del dibattito sulla transizione ecologica.

Per quanto enormi, infatti, questi dati sono ampiamente sottostimati. Al di là delle premesse metodologiche, infatti, anche le premesse tecniche dello studio sono originali, per usare un eufemismo. Facciamo una carrellata, perché anche un lettore non specializzato ha sicuramente tutti gli strumenti per capire le dimensioni degli errori. Ed è importante che le capisca.

Costi:

1) Lo studio stima i costi della transizione energetica, non della decarbonizzazione. Il modello 100% rinnovabili, infatti, non coincide con l’azzeramento delle emissioni. Tanto per cominciare ci sono l’agricoltura e l’allevamento, che rappresentano circa il 7% delle emissioni nazionali. Queste emissioni non sono correlate alla produzione di energia, quindi la transizione verso le fonti rinnovabili non ne influenzerà il bilancio. Più in generale, poi, c’è un problema di fondo: se analizziamo il loro ciclo di vita anche pale e pannelli comportano delle emissioni di anidride carbonica. A seconda di come vengono prodotti i pannelli, dove vengono prodotti e dove vengono installati, l’elettricità generata da un impianto fotovoltaico può avere un’impronta carbonica pari alla metà di quella di una centrale a gas tradizionale. E per l’auto elettrica il discorso è analogo. 

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