La transizione ecologica coinvolge molte discipline diverse. Si va dalla chimica dei materiali all’ingegneria energetica, dalle biotecnologie alla zootecnica, dalla sociologia all’economia politica. Saper elaborare gli input che arrivano dal dibattito specialistico, saper mettere insieme i punti e trasformali in una figura è di per sé un know-how. C’è chi studia i biocarburanti, c’è chi sviluppa nuovi prototipi per la carbon capture, c’è chi brevetta materiali carbon absorbent. Io cerco di capire come usare questi strumenti in maniera economicamente, politicamente e socialmente sostenibile.
La carbon capture, soprattutto nella sua forma più avanzata (Direct Air Capture), può essere definita il sacro Graal delle tecnologie di contrasto al cambiamento climatico.
Parliamo, infatti, di uno strumento che ci permetterebbe di aggirare gli ostacoli di natura geopolitica e sociale che frenano la transizione ecologica, nonché di una tecnologia che – quantomeno in prospettiva – ci consentirebbe di riavvolgere il nastro della crisi climatica, riportando il termostato del pianeta su livelli ottimali.
Tuttavia, il settore sconta la concentrazione di risorse nel campo delle energie rinnovabili e una certa ostilità da parte di alcune frange di attivisti, che vedono nella carbon capture una mano tesa verso l’industria fossile.
Se vogliamo progettare una transizione ecologica giusta ed equa, però, la carbon capture è uno strumento imprescindibile, perché per gran parte dei Paesi in via di sviluppo importare tecnologia con cui produrre energia non è un’opzione realistica, quindi devono essere messi in condizione di sfruttare in maniera ecosostenibile le loro riserve domestiche di energia.
Svolgo attività di ricerca e formazione in questo settore.
Se la carbon capture è il sacro Graal delle tecnologie di contrasto al cambiamento climatico, la carbon utilization è la pietra filosofale del XXI secolo, uno strumento che promette di trasformare le emissioni di CO2 in cemento, fertilizzante, polimeri, fibre.
Tuttavia, per quanto entusiasmanti, le prospettive della carbon utilization si scontrano con la difficoltà di elaborare modelli di business alternativi a quelli attuali. Pensare di “infilare” la CO2 catturata dalle ciminiere o direttamente dall’aria nei processi con cui oggi produciamo cemento o polimeri, infatti, non è economicamente sostenibile.
La sfida, quindi, è individuare nuove architetture di processo o nuovi modelli di integrazione che permettano di infrangere o aggirare i limiti di natura economica che attualmente frenano lo sviluppo di una carbon economy di nuova generazione.
Svolgo attività di ricerca e formazione in questo settore.
Il verde urbano di nuova generazione è uno strumento dalle caratteristiche uniche nel panorama delle green solutions.
Dal punto di vista ambientale, infatti, è uno strumento polivalente: contribuisce ad abbattere la concentrazione di inquinanti e a catturare la CO2, mitiga l’effetto isola di calore e riduce l’inquinamento urbano. Quando abbinato all’edilizia, migliora l’isolamento termico degli edifici e la vivibilità.
D’altra parte, è anche uno strumento dalle notevoli ricadute sociali e un’affascinante opportunità di business. Può diventare uno strumento di riqualificazione urbana su vasta scala oppure un’efficace strumento di rebranding aziendale.
Svolgo attività di ricerca e formazione in questo settore.
La decarbonizzazione è indubbiamente una sfida epocale ma, come tutte le sfide, è anche un’opportunità.
Il paradigma della sostenibilità ambientale, per esempio, ci costringe a ripensare le filiere dei materiali di base, che davamo per scontate da decenni. A ben guardare, infatti, i materiali da costruzione, i polimeri, le fibre più comuni hanno almeno un secolo: il cemento Portland è stato inventato nel 1824, il PVC è stato scoperto nel 1835 e commercializzato nel 1926,il nylon è stato brevettato nel 1937.
La transizione ecologica, perciò, è il volano di una transizione industriale migliorativa, che investirà in particolare i settori low e medium-tech, quindi i settori rimasti più indietro rispetto alle frontiere dell’innovazione a causa delle concentrazione degli investimenti nei settori high-tech.
Svolgo attività di ricerca e formazione in questo settore.
L’incremento della popolazione umana e il miglioramento delle condizioni di vita nelle economie emergenti comporterà un aumento del fabbisogno calorico globale. Lo sviluppo della bioeconomia richiederà ingenti quantità di biomassa. L’inderogabile necessità di ridurre la pressione antropica sugli ecosistemi terrestri si sta già traducendo in politiche che mirano esplicitamente a contenere l’espansione della superficie agricola globale.
Dato che quasi tre quarti della superficie del pianeta sono coperti d’acqua, l’acquacoltura sembra essere diventata una direttrice di sviluppo obbligata.
Le alghe in particolare si candidano a essere una fonte di calorie e biomateriali abbondante, affidabile ed ecosostenibile.
Attualmente, però, lo sviluppo dell’algacoltura è frenato dai modelli di business, inadeguati a competere con quelli dell’agricoltura intensiva.
Ho lavorato alla progettazione di architetture di processo innovative, mirate allo sviluppo di algae farm improntante ai principi dell’agricoltura industriale.
In atmosfera il carbonio alimenta il cambiamento climatico ma nel suolo si trasforma in carburante per la vita.
Come rileva l’IPCC nel suo ultimo assessment report (A.R.6, 2022), il potenziale delle tecniche di carbon farming ready-to-use è impressionante: 30 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno, pari all’incirca a tre quarti delle emissioni antropiche.
Dietro a questo impressionante potenziale ambientale, si nascondono notevoli ricadute sociali e opportunità di business estremamente interessanti.
Da una parte, infatti, lo sviluppo della bioeconomia è un’occasione per riportare occupazione e reddito nei territori, mitigando al contempo il dissesto idrogeologico e il rischio meteo-climatico che stringono in una morsa il nostro Paese.
Dall’altra, le cosiddette Nature Based Solutions (NBS) sono uno strumento capace di creare valore aggiunto, sbloccando l’accesso a mercati contraddistinti da un green premium.
Svolgo attività di ricerca e formazione in questo settore.
La valutazione dell’impatto ambientale di beni e servizi (Life Cycle Assessment) è uno dei campi della ricerca più esposto al rischio di greenwashing.
Analizzando la letteratura scientifica di settore, infatti, sorge il dubbio che la mission degli autori non sia indagare qual è il reale impatto ambientale del prodotto o del servizio che analizzano ma dimostrare aprioristicamente che è estremamente limitato. Infatti, a fronte dello spasmodico interesse per qualsiasi innovazione che potrebbe – in teoria – ribassare i valori di riferimento, si riscontra una totale mancanza di curiosità nei confronti di quei fattori che potrebbero rialzarli.
Nel quadro della decarbonizzazione, però, sia per il decisore sia per le aziende è fondamentale poter disporre di una fotografia precisa e affidabile dell’impatto ambientale di beni e servizi, onde evitare il rischio di prendere decisioni sbagliate.
Svolgo attività di ricerca e formazione in questo settore.
A oggi le emissioni di metano pesano per poco meno del 20% sul bilancio delle emissioni antropiche di gas a effetto serra. Se analizziamo lo squilibrio di gas in atmosfera in prospettiva storica, dal 1750 a oggi, l’incidenza delle emissioni di metano aumenta a circa il 25%.
L’UNEP, in collaborazione con un’ottantina tra compagnie petrolifere e natural gas utilities, ha lanciato la Oil and Gas Methane Partneship (OGMP), un’iniziativa mirata a monitorare con precisione le emissioni di metano dell’industria dell’Oil&Gas.
La Commissione Europea e la US Environmental Protection Agency (EPA) hanno varato degli ambizioni piani di abbattimento delle emissioni di metano, confidando nel valore economico del gas naturale.
Tuttavia, anche in questo campo, le sfide non mancano.
Ho collaborato allo sviluppo di sistemi innovativi di methane detection, in grado di soddisfare i requisiti del livello 5 del framework di reporting 5 dell’OGMP e del livello 3 di quello dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC).