La strategia energetica è da oltre mezzo secolo uno degli argomenti più controversi e articolati della politica statunitense.
Il prezzo, economico, politico e strategico, della crescente dipendenza dalle forniture energetiche estere, e in particolare mediorientali, ha innescato un lungo dibattito interno all’establishment americano in grado di influenzare profondamente la geopolitica globale dalla seconda metà del XX secolo ai giorni nostri.
Dal ‘resource nationalism’ di matrice araba alla Dottrina Carter, dal collasso dell’Unione Sovietica all’ingresso dei mercati emergenti nella Catena del Valore Globale, una lunga serie di fattori hanno contribuito a cristallizzare il paradigma energetico americano.
Da una parte carbone, nucleare, idroelettrico e gas naturale, destinati a sopperire sia al carico di base della rete elettrica che a gran parte del fabbisogno industriale e ai consumi domestici; dall’altra petrolio e derivati, destinati ad alimentare il vorace settore dei trasporti, il polo petrolchimico e nicchie degli altri segmenti. Mentre il primo pilastro della strategia energetica Usa era fondato prevalentemente sull’autoproduzione, il secondo era alimentato in larga parte dall’import.
L’avvento del nuovo millennio ha coinciso con la comparsa sulla scena di almeno tre game changers: lo sviluppo dei giacimenti di idrocarburi non convenzionali, l’ingresso di alcune tecnologie delle nuove fonti di energia rinnovabile (Nfer) nella fase di maturità e la presa di coscienza da parte della classe dirigente dei rischi connessi al cambiamento climatico e dei costi impliciti dell’inquinamento ambientale.
La presidenza Obama e il Rinascimento energetico Usa
L’amministrazione Obama, a dispetto di un packaging tendenzialmente ideologico e non scevro di sbavature retoriche, ha saputo sfruttare con intelligenza e lungimiranza tutte le possibilità offerte dal nuovo scenario. Nel corso dei due mandati democratici la produzione di petrolio negli Stati Uniti è aumentata del 66%, l’aumento più marcatoa partire dal dopoguerra, e quella di gas naturale del 31%, uno degli aumenti più consistenti dell’ultimo secolo.
Malgrado l’antagonismo che tradizionalmente contrappone, seppur più nell’immaginario collettivo che nella realtà, fonti rinnovabili e combustibili fossili, il drastico ribasso dei costi d’impianto, strettamente correlato alla contrazione del prezzo dell’energia, sommato agli incentivi fiscali federali previsti dal Clean Energy Incentive Program, ha innescato uno straordinario sviluppo delle Nfer.
Tra il 2009 e il 2016 l’output di energia eolica (impianti di scala industriale) è cresciuto del 206%, mentre quello di energia solare (fotovoltaico + termodinamico) del 3900%, alimentando un florido indotto industriale e contribuendo alla riduzione delle emissioni fortemente voluta dal presidente nell’ambito del più ampio programma di contrasto al cambiamento climatico globale.
D’altronde, il fenomeno che più di ogni altro ha segnato la presidenza Obama è stato il rinnovamento infrastrutturale, stimolato dal governo federale attraverso una serie di provvedimenti tra cui spicca il Clean Power Plan, adottato dall’Environmental Protection Agency (Epa) nel quadro del Climate Action Plan il 3 agosto 2015.
L’introduzione di limiti progressivi alle emissioni delle centrali termoelettriche ha infatti imposto agli operatori di settore massicci investimenti nell’adeguamento infrastrutturale, che hanno avuto effetti a cascata su tutta la powergrid, aumentando l’efficienza complessiva della rete.
L’International Energy Agency stima che nel solo 2016 gli investimenti confluiti nel settore elettrico americano siano stati pari a 93 miliardi di dollari, di cui 38 destinati alleNfer e 48 al potenziamento della rete di trasmissione e in quella di distribuzione. Il Rinascimento energetico dell’era Obama ha però prodotto un danno collaterale: la crisi dell’industria del carbone. Ma al contrario delle apparenze non si è trattato di un assassinio politico.
Il carbone ucciso da un nuovo paradigma
Nel declino delle centrali coal-fired, infatti, è nascosta la chiave per interpretare l’eredità di Obama: non una rivoluzione energetica, ma una rivoluzione industriale. Anche se intuitivamente è la necessità il motore primo del progresso, uno sguardo più accurato permette di individuare nell’abbondanza il lubrificante che accelera l’avanzamento delle comunità umane. Abbondanza di risorse, di conoscenze, di capitali, di energia, di tensione culturale e psicologica verso il futuro.
L’amministrazione Obama ha indubbiamente beneficiato di fattori pregressi o indipendenti dal disegno politico, come la cosiddetta Shale Revolution, una lunga fase rialzista sui mercati internazionali delle commodities energetiche o l’abbondanza di liquidità nei circuiti finanziari, miscelando con lungimiranza le componenti dell’amalgama. Ma anche aggiunto un ulteriore, decisivo, ingrediente: un incentivo progressivo e coercitivo all’innovazione.
La normative Epa e i decreti presidenziali hanno solamente imposto agli operatori di settore ciò che già il mercato avrebbe dovuto, teoricamente, imporre loro: la continua ricerca di maggiore efficienza.
Nel corso degli ultimi decenni, infatti, la struttura oligopolistica del mercato energetico americano e la scarsa propensione agli investimenti strutturali e infrastrutturali degli operatori, radicata nella stessa natura del settore, hanno formato un collo di bottiglia a livello economico-finanziario, rallentando lo sviluppo industriale.
L’obiettivo di un sostanziale abbattimento delle emissioni è stato quindi centrato attraverso strumenti di crescita e sviluppo, piuttosto che per mezzo di una decrescita dei consumi. Mentre il settore dell’Oil&Gas e quello delle Nfer hanno saputo sfruttaregli stimoli endogeni per evolversi, l’industria del carbone è entrata in crisi.
Le ragioni di questo rapido declino, però, vanno ricercate nella storia e nelle caratteristiche specifiche del comparto piuttosto che in quelle dei vincoli ambientali imposti dall’amministrazione. E nell’avvento di un nuovo paradigma industriale fondato su nuove necessità e nuove possibilità.