I fondi europei ostaggio della decrescita

Tra i progetti inseriti nelle bozze del Piano nazionale di ripresa e resilienza ce n’è uno che ha fatto sin da subito molto rumore. Si tratta di quello di ENI, multinazionale petrolifera a guida pubblica, che intende realizzare a Ravenna il più grande hub europeo per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica (CO2).

Nello specifico, di cosa si tratta?

La cattura e lo stoccaggio della CO2 è un approccio per la decarbonizzazione degli impianti industriali e delle centrali elettriche alternativo rispetto alla transizione verso fonti rinnovabili di energia. Per semplificare, l’anidride carbonica invece di uscire dalle ciminiere e finire in atmosfera viene convogliata in depositi sotterranei a tenuta stagna (giacimenti petroliferi esausti, formazioni saline etc) oppure impiegata per produrre materiali inerti, combustibili ecosostenibili, lubrificanti, etc. 

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Questa soluzione, però, incontra da sempre l’ostilità di gran parte del fronte ambientalista, dato che mira esplicitamente a decarbonizzare le centrali termoelettriche, quindi a rendere ecosostenibile l’impiego dei combustibili fossili.

E anche in questo caso, inevitabilmente, la misura è stata messa nel mirino dalle principali organizzazioni ambientaliste, che hanno scatenato una durissima campagna stampa.

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All’improvviso, nell’ultima bozza del Piano, le pressioni del Movimento 5 Stelle sono riuscite a far saltare il finanziamento da 1,35 miliardi di euro all’hub di Ravenna, nonostante si tratti di un progetto destinato a creare opportunità imprenditoriali e posti di lavoro, che gode di un consenso trasversale sia tra le autorità locali, dal Presidente della Regione Bonaccini al Sindaco di Ravenna De Pascale, sia tra le sigle sindacali.

Quello che lascia più perplessi di questa decisione, però, è l’orizzonte strategico.

Proprio mentre l’Italia chiude le porte a questo approccio innovativo alla decarbonizzazione, infatti, il resto del mondo gliele spalanca.

Tra i primi documenti rilasciati dal transition team del Presidente-eletto Biden c’è un’ambiziosa roadmap per lo sviluppo della capacità di cattura e dello stoccaggio dell’anidride carbonica, in cui viene esplicitamente citata la startup del professore di Harvard David Keith, Carbon Engineering, che qui su Econopoly seguiamo da vicino da parecchio tempo oramai.

Ai primi di dicembre il Consiglio Europeo, approvando un innalzamento dei target ambientali al 2030 (il taglio delle emissioni di gas climalteranti è stato aumentato dal 40% al 55%) ha incluso, per la prima volta, gli assorbimenti, quindi la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica. 

A fine anno il governo norvegese ha lanciato un maxi-progetto di Carbon Capture and Storage da 3 miliardi di euro. I primi interventi di retrofitting si concentreranno su cementifici, acciaierie e inceneritori ma l’obiettivo finale è estremamente ambizioso: rendere ecosostenibile l’industria petrolifera nazionale.

Pochi giorni prima il governo inglese ha erogato l’ultima tranche di un finanziamento da 1 miliardo di sterline destinato allo sviluppo di un hub per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica a Teesside, nel nord-est del Paese. Paradossalmente, il progetto inglese coinvolge proprio ENI.

E persino Elon Musk, il re delle auto elettriche, il patron di Solar City, ha messo in palio pochi giorni fa 100 milioni di dollari all’interno di un contest che premierà la soluzione più efficace per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica. 

La mappa del carbon capture and storage nel mondo
Impianti operativi, in costruzione e/o in fase di sviluppo

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Fonte: Global CCS Institute

Un improvviso scatto in avanti che coinvolge tutte le economie più avanzate. Tutte, tranne l’Italia.

In questo caso, però, si tratta di qualcosa di più dell’ennesimo treno perduto, rischia di essere la goccia che fa traboccare il vaso, condannando l’Italia a un declino irreversibile.

L’improvviso interesse globale per la cattura della CO2 è legato a un aspetto della transizione energetica su cui c’è molta poca chiarezza: il prezzo all’ingrosso dell’energia rinnovabile, cioè il prezzo a cui i gestori della rete comprano l’energia dalle centrali.

Eurostat non pubblica i prezzi all’ingrosso dell’elettricità mentre negli USA i dati sono pubblici. 

Il quadro che emerge è agghiacciante. L’energia fotovoltaica ha un prezzo medio più che doppio rispetto all’energia fossile e più che triplo rispetto a quella nucleare. L’energia eolica, invece, tiene il passo grazie all’eccezionale produttività degli impianti nel Golfo del Messico, in Oklahoma e in Kansas (da cui proviene circa la metà della produzione USA) ma in contesti meno ventosi, come la California, si attesta su valori analoghi all’energia fotovoltaica.

Prezzo medio dell’elettricità all’ingrosso negli USA (2019)
dollari per MWh


Fonte: US Energy Information Administration

Non solo: come dimostra proprio il caso californiano, più aumenta la penetrazione delle energie rinnovabili nel paniere energetico, più lievitano i costi complessivi. Le centrali a gas vengono sottoutilizzate e quindi pagate per rimanere spente, i costi per lo stoccaggio dell’energia crescono esponenzialmente a causa degli accumulatori, gli incendi si moltiplicano per via della proliferazione di cavi elettrici (la principale compagnia elettrica californiana è fallita nel 2019 sotto il peso delle richieste di risarcimento legate agli incendi), i blackout diventano sempre più frequenti e interessano aree sempre più vaste.

Prezzo medio dell’elettricità all’ingrosso in California (2019)
dollari per MWh


Fonte: US Energy Information Administration

E’ chiaro che, messi di fronte a questo scenario ma costretti comunque ad agire, i governi stanno cercando disperatamente un’alternativa.  

E quindi cresce il fermento intorno a vecchie e nuove proposte, dalla cattura della CO2 ai bioreattori, dall’agricoltura rigenerativa all’edilizia carbon negative, dall’idrogeno al nucleare. Qualsiasi cosa, pur di non vedere schizzare i prezzi dell’energia di due o tre volte nel prossimo decennio, soprattutto alla luce della devastazione socioeconomica prodotta dal Covid-19.

Di conseguenza, il progetto di ENI non è solamente un’opportunità per creare reddito e posti di lavoro in un momento molto difficile per il Paese, è soprattutto un’occasione per esplorare un’opzione che ci permetterebbe di preservare la competitività del tessuto produttivo. 

Escluderlo dal Recovery Plan “perché ENI è una compagnia petrolifera e quindi sotto c’è sicuramente un imbroglio” mentre la verdissima Norvegia sviluppa un progetto analogo per mettere in sicurezza il suo settore petrolifero non è solamente miope, denota soprattutto arretratezza culturale e pregiudizio ideologico.

Da quando le strategie di contrasto al cambiamento climatico sono passate dalla teoria alla pratica gli Stati stanno cercando di adattarle alle caratteristiche del proprio tessuto sociale e produttivo. 

Le parole d’ordine degli anni ‘70 hanno lasciato il posto alle analisi costi/benefici, al fine di individuare un percorso di decarbonizzazione che garantisca la competitività industriale e i posti di lavoro.

In Italia abbiamo assistito a un percorso inverso. Invece di maturare, di adottare una prospettiva di governo, l’ambientalismo è stato inglobato dal populismo. Non a caso, il principale partito ecologista italiano non sono i Verdi ma il Movimento 5 Stelle. 

Il problema è che all’orizzonte si staglia uno tsunami socioeconomico senza precedenti: quando verrà rimosso il blocco dei licenziamenti e finiranno i soldi per la cassa integrazione straordinaria il Paese si troverà in ginocchio. 

Non possiamo lasciarci sfuggire neanche la più piccola opportunità, non possiamo permetterci preconcetti ideologici.

La transizione energetica può essere un cappio al collo della nostra economia o un volano di progresso e sviluppo. Tocca a noi scegliere che direzione prendere. 

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