Clima, la situazione è grave ma non è seria

Nel mezzo della canicola deflagra come una bomba nucleare l’ultimo rapporto del International Panel on Climate Change (IPCC), l’organizzazione internazionale a cui 191 Paesi hanno dato mandato di monitorare la crisi climatica ed elaborare una strategia di contrasto.

Quattromila pagine in cui sono condensate tutte le conoscenze scientifiche dell’umanità sulla natura del climate change e sulla sua evoluzione. Quattromila pagine da cui emerge prepotentemente il quadro di una crisi che ci sta scoppiando in faccia.

Innanzitutto, in nessuno degli scenari elaborati dall’IPCC riusciremo a contenere l’aumento della temperatura entro 1,5°. E oramai anche le chance di riuscire a fermarci a +2° sono irrisorie. 

La quantità di CO2 che possiamo ancora emettere (carbon budget) prima di superare il limite dei +2° è oramai molto limitata

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Fonte: IPCC, 2021

D’altra parte, alcuni degli effetti del cambiamento climatico sono già diventati irreversibili, quantomeno da una prospettiva umana: lo scioglimento dei ghiacci polari, dei ghiacciai alpini e del permafrost, l’innalzamento dei mari, il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani sono oramai variabili strutturali del sistema-Terra con cui dovremo fare i conti per secoli o millenni. 

Parallelamente, gli eventi metereologici estremi a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi sono solo un assaggio del meteo impazzito con cui avremo a che fare nei prossimi decenni: le ondate di calore si intensificheranno e, le più violente, potrebbero arrivare a manifestarsi una volta ogni 3 anni invece che una volta ogni 50. Anche sul fronte delle bombe d’acqua e delle inondazioni la situazione è destinata a peggiorare rapidamente ma, in questo caso, bisogna ricordare che abbiamo delle soluzioni ingegneristiche per difenderci dagli effetti più catastrofici. Di contro, gli eventi meteorologici estremi legati al gelo sono destinati a diminuire e, almeno questa, è una buona notizia, dato che le ondate di freddo causano ogni anno più di 100.000 morti. 

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Fonte: IPCC, 2021

Nel complesso, però, il peggioramento delle condizioni meteorologiche avrà delle ricadute drammatiche sul settore agricolo, in particolare nella regione mediterranea (la più colpita a livello mondiale, insieme alla costa occidentale degli USA).

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Fonte: IPCC, 2021

Infine, l’incertezza. Il rapporto mette a tacere le (sparute) critiche ai modelli climatici includendo nelle proiezioni i cosiddetti feedback negativi, cioè quei fenomeni che hanno un effetto raffreddante sulla temperatura terrestre, ma non si sbilancia sui possibili effetti del deterioramento dei carbon pool naturali, che invece potrebbero accelerare il cambiamento climatico. 


Fonte: IPCC, 2021

Semplificando, l’ecosistema terrestre stocca molta più anidride carbonica equivalente di quanta l’umanità ne abbia emessa negli ultimi 250 anni e alcuni di questi depositi, come il permafrost, le torbiere o i clatrati di metano, sono entrati in fibrillazione a causa dell’innalzamento della temperatura. Il rapporto si trincera dietro alla scarsezza di dati e non fa previsioni sull’influenza di queste variabili sulle traiettorie di medio e lungo termine. 

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Fonte: IPCC, 2021

Chi è il responsabile? Su questo non ci sono dubbi: l’Uomo. Per carità, la Natura ha fatto schizzare la temperatura della Terra a +5°,+6° anche +10° rispetto a oggi, causando tra l’altro cinque estinzioni di massa, quindi parlare di colpe è fuori luogo. Quel che è certo, però, è che questa volta il clima sta cambiando per mano nostra. 


Fonte: IPCC, 2021

Fino a qui è la Scienza che parla. Sulla base di questa robustissima impalcatura scientifica, però, nei prossimi mesi l’IPCC proporrà una strategia di contrasto. Ed è bene tenere a mente che quella non ha nulla a che fare con la Scienza, è politica. Oltretutto, è pessima politica. 

Prima di addentrarsi nell’argomento, però, vale la pena tornare su un punto già affrontato in precedenza: come funziona l’IPCC?

Si tratta di un foro scientifico unico nel suo genere: non svolge attività di ricerca indipendente ma fa semplicemente la revisione di tutta la letteratura scientifica che abbia una qualsiasi attinenza con il cambiamento climatico. In poche parole, l’IPCC dovrebbe spiegare ai politici di tutto il mondo cosa dice la Scienza sul cambiamento climatico e sulle possibili contromisure a nostra disposizione.

La struttura operativa dell’IPCC si articola in gruppi di lavoro e una Task Force.

Il primo gruppo di lavoro – quello che ha firmato il rapporto di qualche giorno fa – è dedicato all’analisi del cambiamento climatico e della sua evoluzione, il secondo gruppo di lavoro allo studio dell’interazione tra il cambiamento climatico, l’ecosistema e l’uomo, il terzo elabora le strategie di contrasto e la Task Force ha il compito di calcolare le emissioni di ciascuno Stato membro.

Dov’è il problema? Che sia un gruppo di scienziati, tramite revisione sistematica della letteratura scientifica, a definire lo stato delle conoscenze su fenomeno fisico con feedback chimici, biologici e geologici è assolutamente normale, potremmo dire fisiologico. Ma, come ho sottolineato in un recente intervento il prof. Rovelli, “le decisioni vanno sempre prese dalla politica, la Scienza non si può sostituire ai decisori, chi governa deve tenere conto di tanti fattori”. Insomma, mettere nelle mani di un foro scientifico l’elaborazione di una politica globale che comprimerà libertà e diritti di miliardi di persone, farà vincitori e vinti, ridisegnerà gli equilibri globali, è un evidente strappo rispetto alla dialettica democratica, una nuova forma di totalitarismo.

Non solo, c’è anche un altro problema, che condanna inevitabilmente la strategia climatica dell’IPCC al fallimento. Come rileva il prof. Butera negli ultimi decenni “si è sviluppata l’esaltazione della conoscenza verticale e si è eliminata completamente la capacità o la volontà di guardare in maniera orizzontale. Oggi chi fa ricerca deve occuparsi solo dell’ambito ristretto in cui opera”. Per usare le parole di Camilleri, gran parte dei ricercatori che lavorano all’elaborazione della strategia globale di contrasto al cambiamento climatico sono “teste parziali”: ricoprono quel ruolo per le loro competenze tecniche, non certo per la capacità di visione. E nella gestione di un fenomeno di questa portata e di questa complessità la capacità di visione è la chiave per risolvere l’equazione. 

Dal primo rapporto IPCC (1990) a oggi l’umanità ha emesso più CO2 di quanta ne avesse emessa nei due secoli precedenti

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I danni di questa deriva scientista sono già evidenti, quantomeno agli addetti ai lavori.

Da trent’anni i rapporti dell’IPCC certificano due evidenze inconfutabili: il cambiamento climatico peggiora e le emissioni di CO2 continuano a crescere. Questi due dati ci mandano un segnale molto chiaro: la strategia di contrasto non sta funzionando. Eppure, da trent’anni, le soluzioni rimangono sempre le stesse.

Questa incredibile contraddizione logica diventa palese quando si affronta il tema della cattura della CO2. E cioè lo strumento che da una prospettiva costi/benefici, da un’ottica di risk management, dovrebbe essere il perno della strategia di contrasto al cambiamento climatico ma che l’IPCC relega ai margini per motivi puramente ideologici. 

Le tecnologie di cattura sono quelle soluzioni che ci permettono di catturare la CO2 al momento dell’emissione o direttamente in atmosfera, aggirando di fatto tutti gli ostacoli strategici, politici, sociali ed etici in cui ci siamo impelagati da trent’anni.

L’Agenzia Internazionale dell’Energia prevede che la cattura della CO2 avrà un ruolo crescente nella lotta al climate change sin dai prossimi anni


Fonte: Agenzia Internazionale dell’Energia, 2021

Schematicamente, cerchiamo di riassumere i vantaggi di questo approccio:

  1. è l’unica opzione che ci permette di “riavvolgere il nastro” e far tornare la temperatura terrestre su livelli ottimali. Visto che procediamo a tappe forzate verso scenari da +3° al 2050 e +5° al 2100 forse varrebbe la pena riflettere attentamente su questa caratteristica.
  2. la cattura della CO2 funziona qualsiasi sia la fonte da cui proviene la CO2. Quindi funziona sia con le emissioni umane, sia con le emissioni naturali (sempre più corpose e potenzialmente incontrollabili, come nel caso del permafrost o dei clatrati di metano).
  3. è un approccio che crea sviluppo e posti di lavoro senza lasciare sul campo morti e feriti. Semplificando, si tratta di sviluppare un duplicato dell’industria petrolifera. Fantascienza? La Royal Society stima che tra cinquant’anni il business del carbonio varrà almeno 20.000 miliardi di dollari.
  4. è un settore dalle prospettive inimmaginabili. Con il carbonio ci si fanno combustibili sintetici, fibre, polimeri. Ci si può fare persino cemento o concime. Se riuscissimo a ribassare i costi di qualche decina di volte rispetto agli impianti pilota la cattura del carbonio diventerebbe la base dell’economia mondiale.

Se ci siamo riusciti con i pannelli solari perché non ci dovremmo riuscire con le tecnologie di cattura del carbonio?

  1. costa poco. Già oggi, con un impianto pilota, catturare una tonnellata di CO2 dall’atmosfera costa meno che abbatterla con la mobilità elettrica. 

Parliamoci chiaro: ogni limite infranto, ogni target mancato, avvicina il momento in cui l’unico strumento per combattere la crisi climatica sarà inevitabilmente la rimozione diretta della CO2 dall’atmosfera.

Ma allora perché insistiamo con il paradigma della riduzione delle emissioni a ogni costo? Perché cambiare approccio richiederebbe un gesto di grande umiltà da parte dei padroni del dibattito ambientale: ammettere di aver sbagliato su tutta la linea. 

In che senso?  

Gli unici che hanno serbatoi abbastanza grandi per stoccare centinaia di miliardi di tonnellate di CO2 sono le compagnie petrolifere. E sono proprio quei giacimenti porosi e impermeabili da cui l’abbiamo tirata fuori sotto forma di gas naturale e petrolio.

Gli unici che hanno la tecnologia, il know how e le capacità ingegneristiche per costruire un’infrastruttura globale capace di catturare decine di miliardi di tonnellate di CO2 l’anno sono i colossi mondiali dell’industria pesante e della petrolchimica. Non solo: per molte ragioni diverse, tecniche, la fonte energetica ideale con cui alimentare questa imponente infrastruttura sarebbe l’energia nucleare.

I tre principali cluster innovativi nel campo della cattura del carbonio
Tecnologie abilitanti, brevetti

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Fonte: Agenzia Internazionale dell’Energia, 2021

Insomma, parliamo di un testacoda culturale, industriale, politico. Non deve stupire, perciò, che divulgatori e attivisti green non si facciano avanti, nascondendosi dietro al paravento, oramai stucchevole, dell’irresponsabilità dei politici.

Dopo aver convinto un’ampia fetta dell’opinione pubblica che la colpa del cambiamento climatico è delle compagnie energetiche (come se qualcuno ci obbligasse a fare la doccia calda o a usare la macchina) diventa difficile andare a bussare alla porta di Big Oil per chiedere aiuto; diventa difficile spiegare all’opinione pubblica che tra cinquant’anni consumeremo ancora enormi quantità di combustibile liquido ma, semplicemente, sarà combustibile sintetico fatto con la CO2 recuperata dall’atmosfera; diventa difficile mandare giù il fatto che, almeno i primi tempi, potremmo anche usare centrali a carbone con Carbon Capture and Storage per ripulire l’aria dalla CO2; più che altro, diventa difficile ammettere che l’unica soluzione al problema è più energia, più tecnologia, più crescita e non il contrario. 

E le rinnovabili, e le auto elettriche, e gli hamburger vegetali? Fin quando si traducono in sviluppo, ben vengano! 

Sulla base dei calcoli del Dipartimento dell’Energia e dell’US National Renewable Energy Laboratory è possibile stimare che integrando il paniere elettrico con una quota variabile di energia rinnovabile (20/60%, a seconda della disponibilità di sole, vento, biomasse e bacini idrici) si possono ottenere effetti positivi sulle bollette e sull’efficienza di rete. 

In ambito urbano, invece, il potenziamento della mobilità ibrida o elettrica (pubblica e privata) alleggerirebbe sicuramente la morsa dell’inquinamento e dell’effetto isola di calore che attanaglia le città.  

E persino gli hamburger vegetali, che sotto tanti aspetti per il momento sono una bomba ecologica, possono rappresentare “uno strumento di transizione” verso una dieta più equilibrata in quelle regioni dove tradizionalmente il consumo di carne è eccessivo, quantomeno dal punto di vista della salute, come in Nord America o in Europa settentrionale.

Il punto non è demonizzare quella o quell’altra soluzione ma attribuire a tutte il giusto ruolo nella nostra strategia ambientale.

Un discorso a parte, poi, andrebbe fatto per l’economia circolare, l’efficienza energetica, la riqualificazione edilizia e la riforestazione. In questo caso, infatti, parliamo di opzioni win-win, che coniugano intrinsecamente la tutela ambientale con lo sviluppo. Ma non si tratta di “soluzioni al cambiamento climatico” quanto, piuttosto, di misure-tampone o strumenti collaterali per mitigare altri effetti della crisi ambientale.

Insomma, questo rapporto dovrebbe essere l’ennesima prova che non stiamo facendo troppo poco, come si sono affrettati a chiosare Greta Thunberg e Al Gore, ma che stiamo sbagliando completamente direzione. 

Giocare in difesa contro un fenomeno che si trasformando in un effetto domino non ha alcun senso logico. E, fino a che ci ostineremo a non volerlo capire, continueremo a perdere. 

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