Premetto che, contrariamente alle mie abitudini, inserirò qualche considerazione personale nell’analisi perché vorrei evitare le consuete polemiche costruire ad arte per sviare l’attenzione dal merito degli argomenti che propongo.
Quando si parla di clima ci sentiamo ripetere continuamente “ascoltate gli scienziati”.
Se si parla dell’origine del cambiamento climatico ora sappiamo quasi tutti che la stragrande maggioranza della comunità scientifica è d’accordo sull’origine (prevalentemente) umana del fenomeno.
Ma quando si parla delle strategie di mitigazione, quando si discute qual è la terapia da applicare al nostro pianeta malato, sappiamo cosa dicono gli scienziati?
Sicuramente molti di noi pensano di saperlo: dobbiamo sostituire le auto a combustione con le auto elettriche, le centrali termoelettriche con impianti eolici o fotovoltaici, dobbiamo mangiare meno carne e consumare meno materie prime, dobbiamo rinunciare a tanti piccoli vizi e a qualche comodità per il bene del pianeta.
In realtà, questa è in estrema sintesi la ricetta di una ristretta cerchia di scienziati e attivisti che, grazie a una retorica apocalittica e a una notevole sovraesposizione mediatica, si è accaparrata il privilegio di parlare a nome della Scienza.
Il cuore pulsante di questa ideologia si nasconde nei meandri di un’organizzazione internazionale che sentiamo nominare continuamente: l’IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change (Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico).
L’IPCC è il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici.
Si tratta di un foro scientifico unico nel suo genere: non svolge attività di ricerca indipendente ma fa semplicemente la revisione di tutta la letteratura scientifica che abbia una qualsiasi attinenza con il cambiamento climatico. In poche parole, l’IPCC dovrebbe spiegare ai politici di tutto il mondo cosa dice la Scienza sul cambiamento climatico e sulle possibili contromisure a nostra disposizione.
In realtà fa molto di più: promuove un’agenda politica che spazia dalle relazioni internazionali ai diritti di genere.
La struttura operativa dell’IPCC si articola in gruppi di lavoro e una Task Force.
Il primo gruppo di lavoro (WGI) è dedicato all’analisi del cambiamento climatico e della sua evoluzione, il secondo gruppo di lavoro (WGII) allo studio dell’interazione tra il cambiamento climatico, l’ecosistema e l’uomo, il terzo (WGIII) elabora le strategie di contrasto e la Task Force ha il compito di calcolare le emissioni di ciascuno Stato membro.
Ogni gruppo di lavoro è formato da una decina esperti ed è affiancato da un’unità tecnica (TSU) di dimensioni variabili. I componenti del gruppo di lavoro e dell’unità tecnica sono eletti nelle riunioni plenarie dell’organizzazione, a cui partecipano i delegati degli Stati membri e quelli degli osservatori istituzionali (agenzie ONU, organizzazioni internazionali e non governative).
La struttura dell’IPCC
Dando un’occhiata da vicino al terzo gruppo di lavoro, quello che elabora la strategia di contrasto al cambiamento climatico, ci si accorge subito di una incongruenza: il gruppo di lavoro è composto in maggioranza da scienziati naturalisti mentre l’unità tecnica è formata esclusivamente da esperti ambientali.
Gruppo di lavoro III (WGIII) + unità tecnica
Formazione
Qual è il problema?
Che i primi due gruppi di lavoro, quelli incaricati di studiare l’atmosfera e la biosfera, siano formati in prevalenza da fisici e biologi è fisiologico. Ma che anche il terzo gruppo di lavoro, in cui si dovrebbe parlare soprattutto di soldi, politica e tecnologia, sia composto in maggioranza da scienziati naturalisti è un evidente cortocircuito. Di natura ideologica.
Consegnare le chiavi della strategia di mitigazione a ricercatori esperti di clima e ambiente, infatti, vuol dire adottare la prospettiva di chi vede il bicchiere mezzo vuoto, quindi quello che abbiamo distrutto, invece che il bicchiere mezzo pieno, quindi quello che abbiamo creato.
Sin dagli albori, infatti, l’ecologia è “una scienza sovversiva” che si contrappone alla modernità e alla civiltà industriale. E, da sempre, gli scienziati naturalisti sono i principali ispiratori di questa rivoluzione culturale. In fondo, è anche una questione antropologica: da chi vi aspettereste una critica strutturata alla civiltà delle macchine, da un biologo che lavora nella foresta amazzonica o da un ingegnere informatico che lavora nella Silicon Valley?
Oltretutto, cerchiamo di non dimenticare che l’IPCC ha vinto il Nobel per la Pace nel 2007 in coppia con Al Gore, cioè con il principale esponente dei verdi americani (Green Democrats). Quella green non è mai stata una teoria scientifica quanto piuttosto una visione del mondo. Che ora qualcuno sta cercando di imporre a tutta l’umanità.
Questa insana commistione tra Scienza e politica crea, però, delle preoccupanti distorsioni nelle attuali strategie di contrasto al cambiamento climatico.
Facciamo un esempio: le Negative Emission Techonologies (NETs) sono quelle soluzioni che permettono di ridurre il livello di anidride carbonica in atmosfera. Nei modelli dell’IPCC le NETs hanno un ruolo marginale nella lotta al cambiamento climatico, e solo a partire dalla metà del secolo.
Nel 2019 l’Accademia delle Scienze americana (NASEM) pubblica un rapporto di 500 pagine in cui approfondisce il tema delle emissioni negative. Alla stesura del rapporto partecipano 8 diversi dipartimenti di ricerca, per un totale di 80 esperti specializzati nelle materie più disparate.
Il frontespizio del rapporto dell’Accademia delle Scienze USA con l’elenco dei dipartimenti che hanno collaborato allo studio.
E, guarda caso, la NASEM giunge a conclusioni diametralmente opposte all’IPCC: catturare l’anidride carbonica direttamente in atmosfera costa 100 dollari la tonnellata, non 1.000 come sostiene l’IPCC, ed è un’opzione da sviluppare il prima possibile, non tra 30 anni.
Pochi mesi prima la Royal Society, l’Accademia delle Scienze britannica, era giunta a risultati analoghi, stimando un costo di cattura di 50 dollari la tonnellata e abbozzando programmi di cattura da centinaia di miliardi di tonnellate. Addirittura, l’Accademia britannica prevede che entro la fine del secolo la cattura diretta sarà un business da 10.000 miliardi di dollari l’anno (più del fatturato dell’Oil&Gas oggi). Pochi mesi dopo, l’Accademia delle Scienze europea (EASAC) si è allineata su posizioni simili, adottando come riferimenti le stime della NASEM e della Royal Society.
Dietro questa spaccatura c’è molto più che una divergenza sui dati. I ricercatori dell’IPCC, infatti, si sono convinti che la cattura diretta comporti “un azzardo morale: se la società inizia a pensare che la cattura diretta (geoingegneria) risolverà il problema del cambiamento climatico, potrebbe dedicare meno attenzione alle strategie di mitigazione”.
Un altro esempio: a dicembre del 2015 James Hansen e altri tre eminenti climatologi lanciano sul Guardian un appello a favore dell’energia nucleare.
Tanto per essere chiari: Hansen è considerato il padre delle scienze del clima, è stato per 30 anni Direttore del Goddard Institute for Space Studies alla NASA, le sue ricerche hanno formato almeno due generazioni di fisici dell’atmosfera, ha denunciato pubblicamente le pressioni dell’Amministrazione Bush per sminuire le evidenze scientifiche del cambiamento climatico e ha polemizzato con l’Amministrazione Obama per l’approccio troppo timido, a suo dire, nella decarbonizzazione dell’economia americana. Uno tutto d’un pezzo, insomma.
Ma con chi ce l’ha Hansen quando parla di strategie di mitigazione basate sul pregiudizio?
A metterlo in chiaro ci pensa Michael Shellenberger, con cui Hansen ha provato a rilanciare il tema durante la conferenza del clima di 3 anni fa (COP23): “Gli autori dell’IPCC usano comparazioni dei costi parziali e ingannevoli per mettere in buona luce l’energia solare e in cattiva luce l’energia nucleare”.
Ancora una volta una contestazione sui dati che, per definizione, dovrebbero essere incontrovertibili. E, anche in questo caso, quelle di Hansen e di Shellenberger non sono voci fuori dal coro, anzi.
L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, un’altra agenzia specializzata dell’ONU, anch’essa insignita del Premio Nobel per la Pace proprio due anni prima dell’IPCC (2005), promuove lo sviluppo dell’energia nucleare come strumento di contrasto del cambiamento climatico, rimarcando che già oggi grazie all’energia nucleare evitiamo di emettere 2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica in più l’anno, equivalenti all’impatto di 400 milioni di automobili.
La NASA dal canto suo sottolinea che negli ultimi 40 anni l’energia nucleare ha salvato la vita a quasi 2 milioni di persone, altrimenti morte a causa dell’inquinamento.
Fonte: Organizzazione Mondiale della Sanità
Al contrario, l’IPCC preferisce focalizzarsi sui rischi legati alla sicurezza degli impianti, allo smaltimento delle scorie e, soprattutto, alla proliferazione delle armi nucleari. Temi che, per quanto validi, non c’entrano assolutamente nulla con il clima e che andrebbero lasciati al giudizio dei Parlamenti nazionali e delle organizzazioni competenti.
Qui inserisco la mia prima considerazione: personalmente penso che, se ci si può permettere energia pulita e sicura, sia saggio concedersi questo lusso. Ma credo anche che l’opinione pubblica non vada trattata come un bambino: le cose vanno spiegate chiaramente.
Questi due esempi non sono altro che la punta dell’iceberg. I punti controversi della strategia di contrasto al cambiamento climatico dell’IPCC sono decine e vanno ben oltre le dispute sui costi. Troppo spesso l’IPCC è una voce isolata nella comunità scientifica.
Un ultimo esempio, sempre dalla lettera di Hansen al Guardian: “lo scenario 100% rinnovabili si basa su premesse tecniche irrealistiche”.
Il sole adesso c’è, tra un’ora chissà. E il vento ugualmente. I consumi, invece, hanno bisogno di un flusso di energia programmabile. Fino a che l’energia eolica e solare copre solo una parte del fabbisogno energetico tutto va bene: quando la domanda supera l’offerta accendiamo una centrale a gas (peak plant) e in 180 secondi il problema è risolto.
Ma in un sistema 100% rinnovabili se non c’è sole o non c’è vento come si risolve il problema? Teoricamente ci dovrebbero pensare delle enormi batterie, in realtà questa tecnologia attualmente non esiste. I modelli dell’IPCC, però, danno per scontato che tra dieci anni esisterà e sarà già in commercio a prezzi competitivi. Questa non è un’enorme incognita? Giudicate voi.
Una seconda, breve, riflessione: personalmente non ho nulla contro il solare o l’eolico, due fonti di energia che saranno sicuramente protagoniste nel prossimo futuro. Ma trovo pericolosa l’illusione che si sta coltivando nell’opinione pubblica e cioè che siano una strada sicura per la decarbonizzazione. Come tutte le altre soluzioni, infatti, presentano rischi e incognite. E, anche in questo caso, andrebbe detto chiaramente.
Consumo di suolo correlato a ciascuna fonte di energia (Stati Uniti)
km2 necessari per produrre 1 TWh nell’arco di 365 giorni
Fonte: PLOS ONE
Ricapitolando: nei modelli dell’IPCC l’energia nucleare è osteggiata nonostante sia un’abbondante fonte di energia pulita che comporta rischi inferiori alle fonti di energia sporca che utilizziamo adesso e le tecnologie che ci permetterebbero di invertire il cambiamento climatico sono snobbate perché non combaciano con l’idea di progresso dell’intellighenzia ambientalista. In compenso, l’IPCC include nella sua strategia la parità di genere perché nei Paesi in via di sviluppo contribuirebbe indirettamente a un impercettibile rallentamento del ritmo a cui crescono le emissioni (p. 37). È chiaro che si tratta di politica e non di Scienza.
L’impatto dell’energia sulla salute umana
Morti correlate a ogni TWh di energia prodotta
Incidenti + Inquinamento
Fonte: The Lancet
Un’ultima considerazione personale: sono un convinto sostenitore della parità di genere ma trovo che sia una battaglia socioculturale, non climatica. Temo che questi sotterfugi contribuiscano solo ad incrinare ulteriormente la fiducia dell’opinione pubblica nei confronti dell’imparzialità della comunità scientifica.
Ma perché denunciare queste contraddizioni, alla fine cosa c’è di sbagliato nel promuovere la parità tra uomo e donna o nel mettere in guardia l’opinione pubblica dal rischio di proliferazione delle armi nucleari?
Il problema è che ogni volta che le conferenze sul clima si chiudono con un clamoroso insuccesso a pagare il conto non sono i climatologi. A pagare il conto sono milioni di poveracci per cui la lotta al cambiamento climatico e all’inquinamento è una questione di sopravvivenza e, come tale, viene prima dei modelli di consumo sostenibili, della difesa della biodiversità e persino dei diritti di genere.
Gli alfieri della rivoluzione verde rifiutano di accettare che chiunque complichi la soluzione della crisi climatica aggiungendo paletti, seppur in buona fede come sicuramente sono gran parte degli scienziati e degli attivisti green, si assume una terribile responsabilità: far soffrire, condannare a morte, chi poteva essere salvato da una reazione più pragmatica e quindi più tempestiva.
Oramai stiamo facendo una corsa contro il tempo, la priorità è arrivare al traguardo prima possibile. Milioni di persone già soffrono e già muoiono oggi per le conseguenze del cambiamento climatico e dell’inquinamento. Non ci possiamo concedere il lusso di perdere tempo a cercare la soluzione perfetta, abbiamo bisogno di fare presto.
Quando ci scagliamo contro i politici, colpevoli secondo alcuni di non fare nulla per combattere il cambiamento climatico, cerchiamo di ricordare che negli ultimi 10 anni gli investimenti in energia rinnovabile sono stati pari a 2.600 miliardi di dollari, sostenuti in gran parte da programmi di incentivazione pubblica. Se avessimo dirottato solo il 10% di questa montagna di denaro verso programmi di afforestamento oggi avremmo un asset in più per rallentare gli effetti del cambiamento climatico.
Evidentemente c’è stato più di un errore di valutazione.
I governi fanno quello che possono, convincere l’opinione pubblica della necessità di nuove tasse non è facile. Per questo è di fondamentale importanza mettere a disposizione degli Stati un ventaglio di opzioni più ampio possibile: ciascun Paese deve trovare la propria via per la decarbonizzazione, quella che gli costa meno e gli assicura il rendimento socioeconomico maggiore (posti di lavoro, investimenti, qualità della vita, innovazione, sicurezza etc).
L’alternativa è il modello Macron: un politico “illuminato” che mette in pratica i precetti dell’IPCC, si ritrova in breve tempo il Paese in rivolta ed è costretto a tornare sui suoi passi, avendo ottenuto come unico risultato il consolidamento dell’ostilità popolare nei confronti delle politiche ambientali.
Dopo quasi 30 anni di fallimenti, forse sarebbe il caso di farsi una domanda: le strategie di mitigazione su cui ci siamo incaponiti sono realistiche o stiamo perdendo tempo (che non abbiamo) inseguendo una chimera?
Non abbiamo il dovere di lasciare in eredità alle generazioni future un mondo perfetto, basta che sia migliore di quello che abbiamo ricevuto in eredità noi. La povertà, l’ingiustizia sociale, le discriminazioni di genere ci sopravviveranno? Probabilmente sì, come sono sopravvissute a tutte le generazioni che prima di noi hanno lottato per ridurle. Intanto, però, cerchiamo di mettere in sicurezza il piane11ta.