Nel corso degli ultimi decenni le voci che denunciano uno sbilanciamento dei rapporti tra democrazia e mercato in favore di quest’ultimo si sono moltiplicate, ma le poche teorie articolate che sono state formulate sul fenomeno provengono, tranne poche eccezioni, dall’ambito economico, dalla stessa scienza del mercato.
Analisi come quella di Piketty, solo per citare un esempio di grande successo, affrontano la questione partendo dal mercato e finendo nel mercato: la democrazia viene trattata come un soggetto passivo che si limita a subire l’evoluzione del mercato cercando di contenerne gli effetti.
Dialettica tra democrazia e mercato
Seppure l’attuale dialettica tra democrazia e mercato sia sotto molti aspetti inquadrabile in questo modello, sarebbe un errore pensare che lo sbilanciamento sia solo frutto dell’abilità del mercato di irretire, permeare e di conseguenza indebolire i meccanismi democratici; e considerare il fenomeno come il risultato di un’inevitabile evoluzione del rapporto tra le due entità. Nessun conflitto di alcun genere ha contrapposto democrazia e mercato.
Molto più semplicemente, come avviene ai due liquidi nel principio dei vasi comunicanti, al ritrarsi della democrazia il mercato ha gradualmente preso il sopravvento. La radice profonda della progressiva affermazione del mercato non va perciò cercata nelle caratteristiche del mercato stesso, ma nella crisi della democrazia.
Per individuare la chiave di volta del fenomeno, però, è necessario analizzarlo da un’altra prospettiva, attraverso le riflessioni contenute in due testi, celebri e molto discussi: Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, di S. P. Huntington e La fine della Storia e l’ultimo uomo, di F. Fukuyama.
La crisi democratica
Huntington, in quello che diventerà il suo capolavoro, prevede come effetto della fine della Guerra Fredda “la riconfigurazione del quadro politico mondiale in base a criteri culturali”, la sostituzione degli Stati Nazione come soggetti fondamentali della politica internazionale a opera delle civiltà e l’inasprirsi della conflittualità lungo le linee di faglia, geografiche e culturali, tra le medesime.
Fukuyama, invece, partendo dalla constatazione che “the legitimacy of liberal democracy as a system of government had emerged throughout the world over the past few years, as it conquered rival ideologies like hereditary monarchy, fascism, and most recently communism”, decreta la fine dello scontro che da millenni contrapponeva modelli di sviluppo e sistemi culturali, postulando l’egemonia morale e culturale globale del modello occidentale.
Le due riflessioni si inseriscono in quello che appare il nodo concettuale più problematico della questione, e cioè nella definizione, da una prospettiva politologica, dei meccanismi che portano all’indebolimento della democrazia nei confronti del mercato e nella conseguente degenerazione dell’Ordine mercantile.
La globalizzazione, infatti, non ha rappresentato una singolarità epocale solo per il mercato, ma anche per la democrazia. Per la prima volta nella sua Storia millenaria il mondo condivide un unico modello di sviluppo, che, benché declinato secondo vie diverse, è accomunato da apparati e strutture assimilabili, seppur non del tutto speculari, ed è mosso da ambizioni e paranoie analoghe, seppur in misura diversa.
Gli apparati amministrati e burocratici hanno uniformato e standardizzato le relazioni tra le Nazioni, riducendo drasticamente la conflittualità a dispetto di un aumento delle interazioni, mentre la globalizzazione dell’informazione ha costretto anche il più feroce dei dittatori ad adottare le stesse parole d’ordine delle grandi democrazie, seppur magari distorcendole, storpiandole o disattendendole completamente.
Il grande tradimento
Se, quindi, è indiscutibile che la globalizzazione ha posto delle sfide cruciali alla democrazia, non va però dimenticato che le ha anche offerto gli strumenti per vincerle. Sotto l’egida della civiltà occidentale, culla dell’Ordine mercantile e trionfatrice dello scontro totale per l’egemonia culturale e morale globale, la democrazia avrebbe dovuto varcare i confini degli Stati Nazione e infiltrarsi lentamente nelle istituzioni sovranazionali, rafforzandole.
Spinta dalla necessità di governare fenomeni sempre più complessi e compositi, privata di antagonisti e competitori con ambizioni universalistiche, la civiltà occidentale avrebbe dovuto accentuare la sua natura inclusiva, mentre gli antichi imperi, gli “Stati guida”, avviluppati sempre più profondamente nelle spire della democrazia e del mercato, si sarebbero a loro volta trasformati progressivamente in proxy involontari, garantendo un’espansione rapida e capillare della democrazia nella periferia globale.
Tutto ciò non è avvenuto. Huntington l’aveva cupamente predetto, addossandosi critiche ideologiche e immeritate. Fukuyama, dopo l’entusiasmo iniziale, ha rapidamente virato su posizioni decisamente più pessimistiche.
Nel momento in cui la democrazia è diventata uno strumento per amministrare il mondo e non più per conquistarlo, la civiltà occidentale l’ha tradita, iniziando a chiudersi in se stessa, ad arroccarsi nei suoi privilegi, a esercitare il potere con sempre minor lungimiranza, appannando il prestigio della democrazia e lasciando campo libero al mercato, cinico ma equanime.
Pensare che fosse scontato significa non ricordare lo spirito con cui furono firmati gli accordi Start o con cui fu lanciata l’operazione Restore Hope in Somalia. Vuol dire non tenere in alcun conto proposte come la Tobin Tax e tutti i tentativi di rilancio dell’idea, anche recentissimi, che hanno visto protagonisti personalità estremamente autorevoli, come Mario Monti e Romani Prodi. Soprattutto, vuol dire assolvere la civiltà occidentale dalle sue gravi responsabilità.
Bombe a orologeria come il cambiamento climatico e i fenomeni migratori sono pronte a ricordargliele.