Il 2 settembre, durante un evento pubblico, il Ministro della Transizione Ecologica ha indirizzato un durissimo attacco all’ambientalismo radicale, accusandolo di essere più pericoloso della crisi climatica.
“è pieno di ambientalisti oltranzisti, ideologici: loro sono peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati, se non facciamo qualcosa di sensato. Sono parte del problema, spero che rimaniate aperti a un confronto non ideologico, che guardiate i numeri. Se non guardate i numeri rischiate di farvi male come mai successo in precedenza.”
A quali numeri faceva riferimento Cingolani? Solo il ministro può chiarirlo, intanto però vale la pena analizzare quegli aspetti della transizione ecologica su cui i tecnici cercano disperatamente di attirare l’attenzione ma che gli “ambientalisti da Twitter” fanno di tutto per nascondere all’opinione pubblica.
I costi reali
L’Agenzia Internazionale dell’Energia, la Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, tutti i principali think tank energetici e le società di consulenza prevedono un drastico aumento del costo dell’elettricità a causa della transizione ecologica ma i guru verdi continuano a ripetere che l’energia rinnovabile costa meno di quella fossile. Chi non la racconta giusta? Il trucco è nelle parole.
Effettivamente, soprattutto se tassiamo le centrali termoelettriche più di quelle eoliche o fotovoltaiche, alla fine l’energia rinnovabile può costare meno di quella fossile. Quando c’è, però. Facciamo un esempio. Normalmente in Inghilterra l’energia eolica copre circa un quarto della domanda di elettricità. Dall’inizio del mese, però, al largo delle coste inglesi c’è pochissimo vento.
Produzione eolica 2021 vs 2020
Di conseguenza, per soddisfare la domanda di elettricità, il gestore di rete deve comprare ogni giorno una decina di GWh nel mercato di riserva, cioè da centrali a gas e a carbone che normalmente rimangono spente (o producono poco) ma sono pronte a entrare in funzione (o ad aumentare la produzione) in caso d’emergenza.
Ora, immaginate di avere un negozio dove pagate personale, bollette e fornitori per tutto l’anno ma che può rimanere aperto solo 30 giorni. Quanto fareste pagare la merce? Molto più di quanto costa normalmente, giusto? Per le centrali di riserva funziona esattamente alla stessa maniera, di conseguenza il 6 settembre le quotazioni dell’elettricità sul mercato di riserva inglese hanno superato i 5.000 eur/MWh, cioè 100 volte il costo medio dell’elettricità all’ingrosso.
Il capacity market inglese il 6 settembre 2021
(prezzi, volumi)
Il prezzo in bolletta, purtroppo, riflette sia le ore in cui gli impianti eolici e fotovoltaici funzionano a pieno regime e gli compriamo elettricità a 40-80 eur/MWh, sia le ore in cui compriamo elettricità a costi esorbitanti dalle centrali di riserva perché non c’è né vento né sole (spoiler: le batterie non si usano perché, almeno per il momento, costerebbero ancora di più). Facendo la media su 365 giorni l’anno le bollette aumentano vorticosamente, come stiamo già sperimentando.
Qui ci starebbe bene una finestrella con l’articolo di Giliberto
https://www.ilsole24ore.com/art/stangata-senza-precedenti-bollette-30percento-il-gas-20percento-l-elettricita-AE1rbnh
Ed è questo il motivo per cui si torna a parlare di nucleare, perché l’energia nucleare è pulita ma anche programmabile, nel senso che non è soggetta ai capricci del meteo. “Ma costa il doppio di quella rinnovabile!”. Sì, però una centrale nucleare produce per 8.500 ore l’anno mentre un impianto eolico, nel migliore dei casi, produce per 5.000 ore l’anno e un impianto fotovoltaico per 2.400 ore l’anno (la media in Italia è 1.135).
Fonte: GSE
Ovviamente l’opinione pubblica ha il diritto di rimanere ostile nei confronti dell’opzione nucleare ma sia ben chiaro perché il decisore torna a proporla: perché è atterrito dalle proiezioni sui prezzi dell’elettricità in bolletta. Che a fronte di questi dati si continui ad abbindolare l’opinione pubblica dicendo che “l’energia rinnovabile costa meno di quella fossile” è uno scandalo, chi lo sostiene andrebbe trattato alla stregua di un no-vax.
Le ripercussioni umanitarie
Che ci piaccia o no, i combustibili fossili danno da mangiare a 2 miliardi di persone. Le rinnovabili, invece, stanno diventando un monopolio della Cina, dato che sono prodotti manifatturieri e Pechino è la fabbrica del mondo.
Incidenza percentuale delle rendite petrolifere sul PIL
Fonte: Banca Mondiale
“Lasciare i combustibili fossili sottoterra”, perciò, significa tagliare fuori i Paesi in via di sviluppo dal mercato più ricco del mondo, quello dell’energia. Molto spesso l’intellighenzia verde cerca di disinnescare questi argomenti contrapponendogli stime, il più delle volte gonfiate, degli effetti distruttivi del Global Warming: si cerca di dimostrare che il cambiamento climatico farà più morti della lotta al cambiamento climatico stesso, quindi è giusto andare avanti. Questo è un argomento tipico dei fanatici e un ingrediente fondamentale di tutte le nefandezze che costellano la Storia dell’umanità: “le vittime che facciamo oggi renderanno il mondo un posto migliore per le prossime generazioni”. Il problema di questo modo di ragionare è che esclude implicitamente tutte le soluzioni che non fanno vittime né oggi, né domani. La foga con cui nomi pesanti dell’ambientalismo internazionale, come Greta Thunberg o Micheal Mann, cercano di demonizzare le opzioni tecnologiche che mirano a rendere ecosostenibili i combustibili fossili (la cattura del carbonio) andrebbe definita in una sola maniera: classista. Se riusciamo a rendere ecosostenibili carbone e petrolio, infatti, chi ci guadagna sono la Libia, l’Iraq, il Sudafrica, la Nigeria, il Congo, il Vietnam, il Botswana.
Le ripercussioni geopolitiche
Tradizionalmente i combustibili fossili li importiamo da Nazioni fragili, che hanno bisogno del nostro aiuto per crescere e mantenere la stabilità interna. Di conseguenza, da decenni il mercato degli idrocarburi è controllato da chi consuma e non da chi produce. Le quotazioni delle materie prime energetiche non salgono e scendono a piacimento dei Paesi produttori ma in funzione della domanda: se qui c’è una crisi economica il prezzo del petrolio crolla per sostenere la ripresa. Con pannelli, pale e batterie non funziona alla stessa maniera. Tutto il mercato delle “nuove rinnovabili”, come si definiscono in gergo per distinguerle dall’idroelettrico, è in mano alla Cina. E anche i mercati correlati all’elettrificazione, dai materiali alle automobili, dalle pompe di calore agli elettrolizzatori, sono in mano alla Cina.
Quindi, a livello geopolitico, passare dai fossili alle rinnovabili significa passare da una rete di fornitori che spazia dalla Libia agli USA, dall’Azerbaijan al Messico, dal Kazakhstan alla Nigeria, a un unico fornitore, Pechino. Che, a differenza degli altri, ha una sua agenda globale e mette le briglie ai suoi partner commerciali.
Il fabbisogno di materiali
Il fabbisogno stimato di litio per la transizione ecologica è di circa 19 milioni di tonnellate (Energy Transition Commission). Le riserve globali di litio sono 17 milioni di tonnellate (USGS).
E questo è solo un esempio, i materiali che mancano sono una decina. Vogliamo scommettere che nei prossimi trent’anni troveremo nuovi giacimenti? D’accordo, non è così irrealistico in effetti. Ma dobbiamo vedere anche l’altra faccia della medaglia: quando appariranno i primi SUV elettrici, le prime fuoriserie, le batterie diventeranno più grandi e la domanda di materiali aumenterà.
Non solo. Tra qualche anno esauriremo i giacimenti superficiali e inizieremo a scavare sempre più in profondità. Quanto costerà il litio quando lo andremo a cercare a 100 metri sottoterra, invece dei 4 o 5 di oggi? Questa dinamica si definisce in gergo greenflation ed è un meccanismo elementare: mano a mano che la domanda cresce e le riserve diminuiscono, le quotazioni aumentano. In particolare, se l’offerta non riesce a soddisfare tutta la domanda.
Già quest’anno la domanda di litio supererà di circa 100.000 tonnellate l’offerta. Entro la fine del decennio il divario tra domanda e offerta potrebbe arrivare a 1 milione di tonnellate
Fonte: Benchmark Mineral Intelligence, 2020
Le ripercussioni ambientali
Il 30 agosto l’Espresso ha pubblicato un’inchiesta in cui stima che, solo nei prossimi dieci anni, pannelli e pale eoliche si mangeranno 80.000 ettari di suolo agricolo (una superficie pari a 5 Milano). A stretto giro l’autore, Antonio Fraschilla, è stato messo alla gogna sui social da tutta la comunità green, accusato di spacciare fake news e di essere al soldo dei petrolieri. Tanti esperti, o presunti tali, hanno contrapposto alle stime di Fraschilla calcolini artigianali fatti per lo più sui social ma, almeno per il momento, non sono state pubblicate contestazioni suffragate da fonti scientifiche. Perché? Perché lo studio scientifico che stima il consumo minore di suolo per l’Italia prevede di destinare alle energie rinnovabili mezzo milione di ettari (30 volte la superficie di Milano). Oltretutto, queste stime sono state bocciate sulla rivista scientifica più prestigiosa d’America, PNAS, in quanto irragionevolmente basse. Lo studio più recente e più documentato pubblicato sul tema, invece, prevede un consumo di suolo per la sola tecnologia fotovoltaica pari a 800.000 ettari (50 volte la superficie di Milano).
La percentuale di suolo da destinare ai soli impianti fotovoltaici
Fonte: Nature, 2021
È bene tenere a mente che attualmente la superficie consumata in Italia è di circa 2 milioni di ettari (ISPRA). L’antropizzazione dei territori si traduce nello spiacevole inconveniente per cui ovunque andiamo, riserve naturali a parte, vediamo una casa, una strada asfaltata, una linea dell’alta tensione. Se progettiamo di occupare 1 milione di ettari con pale e pannelli significa che tra trent’anni, ovunque andremo, vedremo pale e pannelli. Questo non sarebbe impatto ambientale? Non stupisce che i guru verdi facciano di tutto per insabbiare e minimizzare la questione.
La sostenibilità politica
Abbiamo analizzato più volte il caso dei Gilet Gialli e quello delle elezioni americane del 2016, vediamo un esempio più attuale. In Germania, il Paese più green d’Europa, i Verdi si attestano intorno al 16% e sono il terzo partito. Anche Alternative fur Deutschland (AfD), il partito di ultradestra che si piazza a pochi punti percentuali dietro ai Verdi, è convinto che questi siano anni decisivi per il futuro della Germania. Per loro la minaccia epocale, però, è l’immigrazione, non il cambiamento climatico.
Il cambiamento climatico non rientra tra le prime dieci preoccupazioni degli elettori tedeschi
Fonte: Deutsche Welle
AfD viene giustamente marginalizzata perché raccoglie l’11% dei voti, perché i Verdi dovrebbero diventare il fulcro della politica tedesca, e quindi europea, con il 16%?
I sondaggi in Germania
Fonte: Politico
Stiamo attenti: il totalitarismo verde è una minaccia alla democrazia altrettanto pericolosa del sovranismo. Da sempre il problema dell’ambientalismo politico sono i voti. Grandi ambizioni, piccole percentuali. Un tempo era colpa dell’attività di lobbying dei petrolieri, oggi va di moda prendersela con l’elettorato becero e ignorante. Magari varrebbe la pena chiedersi se il problema non siano le proposte.
Insomma, se grattiamo la superficie si capisce che il dibattito climatico è diventato una questione di identità politica. Oramai chiunque rivesta un ruolo pubblico, o quantomeno mediatico, si sente in dovere di esternare opinioni sul cambiamento climatico, sulle rinnovabili, sull’auto elettrica, sull’energia nucleare, sulla finanza verde e sulla carbon capture.
Ed è in questa dinamica che è facile trovare la radice del duro affondo di Cingolani. Oggi il principale problema della politica climatica globale non è l’attività di lobbying dell’industria energetica ma questo chiasso disinformato o ideologico che sta sommergendo numeri e fatti.